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Anabasi del ‘68 e il mondo stanco. Il fine giustifica sempre i mezzi?

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Chi persegue buoni fini attraverso l’uso di ‘mezzi sospetti’, non può non tener conto che dal bene non deriva sempre il bene e dal male, non ne viene sempre il peggio“. Nessuna etica può stabilire quando e in qual misura tali fini giustifichino i mezzi e le altre conseguenze moralmente pericolose. È nostro dovere, vivendo in una comunità che abbia a cuore il benessere degli ‘innocenti’, valutare attentamente, di volta in volta, le cause e gli effetti che le nostre azioni possono produrre.

di Maurizio Angeletti

Termine con il quale si usa indicare il complesso dei fenomeni di contestazione giovanile (di molti paesi occidentali), il ‘68 (sessantotto) rappresenta, nella mitologia politica e di costume del recente passato, ‘le trait-d’union’ che, inequivocabilmente (ça va sans dire), collega il periodo temporale post-bellico (secondo conflitto mondiale) con il mondo contemporaneo, quello odierno. Determinato, quest’ultimo, simbolicamente, dalla caduta del ‘Muro di Berlino’, ma nei fatti dall’implosione di un sistema, il socialismo reale, che aveva i giorni contati per la mancanza di vere e solide basi sociali sulle quali costruire un vero, e non illusorio, edificio di ‘democrazia reale e non iniqua’… per la massa.

Nella realtà questo movimento (il ‘68) mostra già i suoi primi tratti somatici (il punto di vista è personale e sindacabile) nel tentativo di rivoluzione popolare (guidata da Imre nagy) in Ungheria nel 1956 . Il ‘j’accuse ‘ del nuovo segretario del PCUS. Nikita Kruscev, verso il suo predecessore Stalin (‘destalinizzazione’), produsse, nel popolo magiaro, l’illusione di una nuova, vera, democrazia socialista; subito disattesa e repressa nel sangue con l’ingresso dei carri armati sovietici nella capitale Budapest.

Il crescendo rossinianiano, del movimento (sessantotto), trova poi il suo punto culminante attraverso una lotta culturale d’appartenenza (anti-imperialista/americana su tutto), nel ‘default’ bellico degli americani contro i viet-cong di Ho-chi-minh e, poco tempo dopo, con lo scandalo watergate che travolge inesorabilmente il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.

Il decennio successivo (1972/73-1982 ca.), assume di nuovo il carattere di una sinfonia moderata per riportarci, abilmente, nelle acque letèe (di memoria dantesca) di un passato nuovamente aggiornato, mantenendo, comunque, le concessioni delle novità di costume acquisite nel frattempo; una pseudo-emancipazione sociale ma, di fatto, un dono funzionale al sistema e ai nostri cari ed ‘eterni padroni’. Dopodiché, con l’avvento al ‘potere’ (noterete come e con quale discrezione faccia uso di questa parola) di Ronald Reagan, negli Stati Uniti, e di Margaret Thatcher, nel Regno Unito (GB), in nome del liberismo più sfrenato, si da l’avvio alla ‘deregulation’ (deregolamentazione); tale è il termine dato a quella politica economica liberista che ha abolito norme e regolamenti che vincolavano l’attività di imprese nei settori dei servizi pubblici –linee aeree, telecomunicazioni – e dell’energia. L’adozione di tale politica, in funzione di contrasto al ‘mondo comunista’ (venuto meno agli inizi degli anni novanta), ha prodotto, successivamente, uno tsunami di proporzioni bibliche sull’economia reale, che fondava il proprio equilibrio sul contrasto fra l’occidente ed il comunismo stesso. A questo punto della storia dovrei tirar le somme per fare un’analisi, a cinquant’anni di distanza (formali), di quel movimento (o fenomeno, fate voi) chiamato ‘sessantotto’. C’è chi l’ha definito (e non sono in pochi) ‘l’immaginazione al potere’ (per gli stessi, però, durata poco) e c’è anche chi ritiene che quei piccoli cambiamenti di costume e di emancipazione prodotti nel periodo, siano stati una vittoria, seppur piccola, per qualche traguardo raggiunto (Come nel ‘Candid’ di Voltaire: il migliore dei mondi possibile). Chi sta scrivendo ne vede, purtroppo, soltanto i lati peggiori, e può darne solo questa definizione: ‘Il ‘68 è stata la strage degli innocenti nella fiera delle illusioni’. E ciò che ha lasciato è il mondo che stiamo vivendo, un mondo stanco.

Stanco di sentirsi vivo, di aprirsi verso l’esterno per conoscere se stesso nell’altro, stanco di stupire senza orrore o di stupirsi per l’orrore, stanco di vivere per abbandonarsi… nell’abitudine dell’esistere.

Così vede il mondo il sottoscritto, in questi giorni della noia senza vera gioia, in questa balera senza ballerini veri, in questo circo di pagliacci che non fanno più ridere, ma ti fanno sorridere. Ci sono i leoni, in questo circo, ma non serve più il domatore: nessuno potrebbe aver paura di questi felini che non hanno più unghie né denti. E la tristezza diventa la padrona… di una tragedia senza dramma, di una commedia senza ironia.

Quell’uomo, pieno di ideali e di immaginazione, non ha avuto il coraggio di rinnovarsi, ed ora ha i giorni contati, siano essi anni o decenni, ormai son solo pochi. Non vedo alternativa, fra l’altro, al corso della sua presenza nell’Universo… è alla fine. Sicché l’unica speranza di questo disilluso è che il suo spirito possa albergare in qualche nuova stella che riproponga la vita, magari un’altra, da un’altra parte.

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