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Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giovanni Falcone: gli eroi dell’Italia moderna

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Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giovanni Falcone: gli eroi dell’Italia moderna – «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.» (Scritta apparsa sul luogo della strage all’indomani dell’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa )

In soli dieci anni l’Italia, nella bella e nobile città di Palermo, ha perso 2 dei più valorosi eroi dell’Italia moderna, tragedia a cui è seguita a pochi mesi di distanza il sacrificio di Paolo Borsellino, che sempre a Palermo, in via D’Amelio, venne ucciso dai sicari di Cosa Nostra. Dopo di loro, uomini di valore alla stregua del Capitano Ultimo hanno cercato di portare avanti il loro operato, con mille sacrifici e mettendo a repentaglio la propria vita, in nome dei valori che hanno contraddistinto le loro vite.

Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa è stato un uomo d’azione, che ha servito il Paese negli anni più tragici del dopoguerra, caratterizzati dall’offensiva terroristica e dagli attacchi della Mafia e pieno di un’emergenza democratica cadde al suo posto di combattimento.

Dopo aver sconfitto le Brigate Rosse, venne spedito nella primavera del 1982 a Palermo, insanguinata dai morti ammazzati nella guerra tra cosche e dall’omicidio del segretario regionale del Partito comunista italiano, Pio La Torre, ucciso insieme all’autista-guardia del corpo Lenin Mancuso il 30 aprile, alla vigilia della festa dei lavoratori.

Un delitto mafioso, politico e simbolico anche per la data in cui fu consumato, che spinse il governo ad anticipare l’invio del generale appena nominato prefetto nella “città dei mille morti”, come risposta e segno di riscossa. Ad un simbolo abbattuto si reagì innalzandone un altro; abbattuto anche quello, poco dopo.

Solo a seguito dell’omicidio La Torre, la legge che porta il suo nome fu approvata dal Parlamento, mettendo a disposizione dei magistrati il reato di associazione mafiosa e nuovi strumenti per colpire i patrimoni dei boss; ma ci vollero il  sacrificio del leader e – cento  giorni più tardi – quello di dalla Chiesa, assassinato la sera del 3 settembre insieme alla giovane moglie Emanuela (sposata nemmeno due mesi prima, il 10 luglio) e all’agente di scorta Domenico Russo.

Una strage che determinò, in pochi giorni, il varo della legge Rognoni-La Torre che ancora oggi si applica pressoché quotidianamente nei tribunali di tutta Italia e non più solo in Sicilia.

Il generale fu eliminato prima ancora di avere il tempo di affrontare l’emergenza mafiosa per cui era stato richiamato in servizio, seppure con una carica (quella di Prefetto) più adatta a cerimonie e tagli di nastri che a interventi concreti; ma a lui avevano promesso nuovi poteri, che tardarono ad arrivare (e non arrivarono). Tuttavia era logico aspettarsi che dalla Chiesa avrebbe trasformato quell’incarico in qualcosa di diverso e più incisivo, e per questo gli impedirono di cominciare a lavorare. Un delitto preventivo.

Comprese le caratteristiche della nuova mafia che avrebbe dovuto fronteggiare, quella dei corleonesi guidati da Totò Riina, grazie all’interpretazione degli omicidi commessi durante i cento giorni e alla lettura del famoso rapporto contro “Michele Greco + 160”, firmato dal capo della squadra mobile Ninni Cassarà, che fu la base del maxi-processo. Ed ebbe il tempo di denunciare, nella famosa intervista-testamento rilasciata in agosto a Giorgio Bocca, i contorni di un fenomeno che non s’era rinnovato solo perché aveva sostituto i kalashnikov alle lupare, ma soprattutto grazie alle collusioni e alleanze nel mondo imprenditoriale, oltre che politico. Un messaggio chiaro per i boss e i loro complici, che non potevano aspettarsi nulla di buono dal generale-prefetto.

Aveva capito, Carlo Alberto dalla Chiesa, che l’emergenza mafiosa era molto più grave è complicata rispetto a quella del terrorismo che aveva già combattuto e vinto, seppure osteggiato e ricacciato indietro dopo i primi successi. Solo all’indomani del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro lo Stato decise di affrontare seriamente il problema, e fu in grado di risolverlo anche grazie al lavoro e alle strategie del generale.

Contro la Mafia il generale Dalla Chiesa immaginava di poter seguire la stessa strada, ma purtroppo dovette fare i conti con una differenza fondamentale.

Mentre i terroristi erano schierati frontalmente contro le istituzioni, e dunque lo Stato unitariamente a un certo punto decise di fronteggiarli e sconfiggerli, i mafiosi avevano collegamenti e alleanze dentro le istituzioni, e non sarebbero bastati i proclami ufficiali e la sagacia investigativa di un carabiniere e qualche magistrato a toglierli di mezzo.

Il generale nominato prefetto lo intuì, e solo per questo divenne un pericolo, un ostacolo da rimuovere prima ancora che potesse entrare in azione.

Con la sua morte dalla Chiesa è diventato un simbolo ancor più sia significativo. Per i “siciliani onesti” che dopo l’omicidio videro perdere la speranza, come scrisse una mano anonima sul cartello che comparse in via Carini, il luogo della strage; e per quella parte di istituzioni che non voleva convivere con la mafia, bensì liberarsene.

Un simbolo importante se il giudice Giovanni Falcone, il 3 settembre 1985, per un giorno decise di tornare a Palermo – lasciando l’isola dell’Asinara dove era stato “deportato” insieme a Paolo Borsellino per poter scrivere in condizioni di sicurezza l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo – e partecipare a Palermo alla commemorazione del generale-prefetto, nel terzo anniversario del delitto.

Un mese prima i killer corleonesi avevano ammazzato il commissario Ninni Cassarà, e sette anni più tardi sarebbe toccato a loro, Falcone e Borsellino. Altre stragi e altri simboli, come Carlo Alberto dalla Chiesa. Caduti nella guerra combattuta da uomini dello Stato contro Cosa nostra e i suoi complici, annidati anche dentro lo Stato.

Falcone fu vittima della mafia a Capaci nel primavera 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Già il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze, comunemente detto attentato dell’Addaura: alcuni mafiosi piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann.

Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l’attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l’ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone.

Falcone dichiarò al riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di “menti raffinatissime”, e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del SISDE che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi confermata in Cassazione.

Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del “corvo”: una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice e i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e importanti investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere “pilotato” il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i Corleonesi, storici nemici della sua famiglia.

I fatti descritti vennero presentati come movente della morte di Falcone per opera dei Corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno. I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e gli accadimenti all’interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia queste missive vennero attribuite a un “corvo”, ossia un magistrato. Sebbene sul momento la stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di “cose di cosa nostra” (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza); le missive avrebbero così inteso insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie, concorrenze e gelosie professionali.

Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici. Le impronte digitali – raccolte con un artificio dal magistrato inquirente – furono però dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l’anonimo con cui furono confrontate, erano alquanto deteriorati). Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Di Pisa, che tre mesi dopo davanti al C.S.M. avrebbe mosso gravi rilievi allo stesso Falcone sia sulla gestione dei pentiti sia sull’operato, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto.

Successivamente nell’agosto 1989 cominciò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incriminò insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse.

Lima e la corrente di Giulio Andreotti erano disprezzati dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e da tutto il movimento antimafia, per cui l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all’Addaura contro Falcone: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».

Nel gennaio 1990, Falcone coordina un’altra importante inchiesta che porta all’arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3 Samarcanda, dedicata all’omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone che, a suo dire, avrebbe “tenuto chiusi nei cassetti” una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto “terzo livello”) ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come “cinismo politico”. Rivolto direttamente a Orlando, dirà: “Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati”.

La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte di Falcone; in particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico Mixer ha accusato Orlando di aver infangato suo fratello: «hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia […] lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario».In un’intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone.

Nel clima determinatosi nel periodo 1988-1991 Giovanni Falcone spendeva ogni sua energia nel lavoro investigativo sui cosiddetti “delitti politici” siciliani (gli omicidi di Michele Reina, di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo), sottoscrivendo infine la requisitoria con cui, il 9 marzo 1991, la Procura di Palermo chiedeva per quei delitti il rinvio a giudizio dei vertici di Cosa Nostra insieme a quello di esponenti dell’estrema destra quali Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, questi ultimi indicati quali esecutori materiali dell’omicidio Mattarella (vennero poi assolti nel processo svoltosi, nella parte che li riguardava, dopo l’uccisione di Falcone).

Negli stessi anni conduce insieme al capitano Arma dei Carabinieri Angelo Jannone – allora in servizio a Corleone – delle indagini finalizzate alla ricerca del latitante Totò Riina, autorizzando la collocazione di microspie presso le abitazioni di alcuni familiari e presso lo studio del commercialista Giuseppe Mandalari a Palermo. Soprattutto le intercettazioni presso lo studio di Mandalari metteranno in luce una serie di collusioni massoniche e politiche che furono ritenute particolarmente importanti e delicate dal magistrato, che avvertì il capitano Jannone: “chi tocca questi fili muore”.

La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, Cosa nostra sembrò trarre vantaggio della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate “Movimento per la giustizia” e “Proposta 88”, ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero.

La vicinanza di Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da diversi esponenti politici. In particolare, l’appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte del Partito Comunista Italiano e di altri settori del mondo politico (Leoluca Orlando in primis, oltre a qualche altro esponente della DC e diversi giudici aderenti a Magistratura Democratica) che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Inoltre, alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticarono poi il progetto della procura nazionale antimafia, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. Il 10 agosto 1991, ai funerali in Calabria di Antonino Scopelliti, Falcone sentì di essere in pericolo e confida al fratello del collega: «Se hanno deciso così non si fermeranno più… ora il prossimo sarò io».

Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone venne convocato davanti al CSM in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».

Il 12 gennaio 1992 in una trasmissione televisiva su RaiTre a seguito di una domanda posta da una persona del pubblico affermò:

«Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l’hai fatta esplodere.»

In riferimento all’attentato Attentato dell’Addaura che subì 3 anni prima.

In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni.

Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dell’Arma dei Carabinieri del ROS che analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica e imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare a ulteriori approfondimenti. Il ruolo di “superprocuratore” a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della Magistratura e una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per giunta in uno sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova.

Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell’intervista concessa a Marcelle Padovani per Cose di Cosa Nostra, Falcone attesta la sua stessa profezia: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

Mancavano solo undici giorni all’attentato “quando in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani di Falcone, e quel foglietto lo avvertiva”]. In effetti, alcuni giorni prima dell’attentato Falcone dichiarò: “Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano”.

Falcone venne assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva all’aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Il boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidò le tre Fiat Croma blindate dalla caserma “Lungaro” fino a Punta Raisi, dove dovevano prelevare Falcone; Ganci telefonò a Giovan Battista Ferrante (mafioso di San Lorenzo, che era appostato all’aeroporto) per segnalare l’uscita dalla caserma di Montinaro e degli altri agenti di scorta.

Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della Fiat Croma bianca e accanto prende posto la moglie Francesca Morvillo mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza va a occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone c’è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra, che imboccarono l’autostrada A29 in direzione Palermo. In quei momenti, Gioacchino La Barbera (mafioso di Altofonte) seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè (capo della Famiglia di Altofonte), che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci.

Tre, quattro secondi dopo la fine della loro telefonata, alle ore 17:58, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada: la prima auto, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo; la seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza; rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio. La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada.  In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.

Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri presso l’ospedale civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch’essi trasportati in ospedale mentre la polizia scientifica eseguì i primi rilievi e il corpo nazionale dei Vigili del Fuoco provvide all’estrazione dalle lamiere i cadaveri – resi irriconoscibili – degli agenti della Polizia di Stato di Schifani, Montinaro e Dicillo. Intanto la stampa e la televisione iniziarono a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L’Italia intera sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, a un’ora e sette minuti dall’attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch’ella, intorno alle 22:00. La salma del magistrato italiano venne tumulata in una tomba monumentale nel cimitero di Sant’Orsola a Palermo. Nel giugno 2014 la salma venne poi traslata nella Chiesa di San Domenico situata nel capoluogo siciliano.

«La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.»
(Giovanni Falcone, Rai 3, 30 agosto 1991)

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