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Chirurgia senza sangue: quanto è diffusa in Italia?

infermieri

Quasi tutti i mezzi d’informazioni hanno riportato negli scorsi giorni la notizia della morte della donna 70enne, Testimone di Geova, avvenuta all’interno dell’ospedale di Piedimonte Matese nel Casertano. Il tragico fatto era stato reso noto via social dallo stesso medico Gianfausto Iarrobino che aveva in cura la paziente.

Il primario ha dichiarato che “poteva salvare la donna al 100% se avesse potuto praticare le trasfusioni di sangue”, che la donna aveva preventivamente rifiutato mettendo per iscritto le sue volontà prima di entrare in ospedale. Nella replica dei figli si leggeva invece che i sanitari “non hanno nemmeno fatto indagini strumentali che permettessero di trovare il luogo esatto dell’emorragia così da fermarla il prima” e aggiungevano che il primario era stato “incapace di curare la paziente con strategie cliniche alternative alle trasfusioni”.

Scontato il polverone e lo scalpore suscitato dal tragico evento e gli inevitabili strascichi polemici conditi da violenze verbali, che al giorno d’oggi si esprimono specialmente con i social network. In questi, ricordava con amarezza Umberto Eco, “hanno diritto di parola anche legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino … e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.

Come stanno realmente le cose? Sulla scia del principio del filosofo Baruch Spinoza che raccomandava “di non deridere, non compiangere, non disprezzare ma comprendere”, vogliamo capire qual è la situazione della chirurgia senza sangue in Italia e cosa dice la Legge italiana sul rifiuto delle emotrasfusioni.

Rifacendoci  a fonti divulgative esterne ai Testimoni di Geova, si può certamente affermare che la medicina e chirurgia senza sangue è praticata in Italia sin dai primi anni ’70.  In un servizio di Panorama  del 23 luglio 1979 relativo a un convegno medico nell’ospedale di Ripatransone  in provincia di Ascoli Piceno, il dottor Cesare Buresta, precursore in questo campo pur essendo estraneo religiosamente ai testimoni di Geova, dichiarava che “era possibile operare senza trasfusioni di sangue nel 99% dei casi. Un risultato che potrebbe consentire notevoli vantaggi”. Con gli anni sarebbero divenuti migliaia i medici disposti a fare ricorso a terapie alternative efficaci, praticamente in tutte le branche della medicina moderna.

Oggi ogni anno vengano effettuati circa 16.000 interventi da parte di 5.000 medici senza il ricorso alle trasfusioni. Tra questi, interventi complessi che vanno dai trapianti di fegato alla cardiochirurgia per arrivare a interventi in utero per curare la spina bifida, come descritto dal nostro giornale qualche settimana fa.

Che dire degli interventi non programmati o delle urgenze? Il dottor Samuel Mancuso cardiochirurgo al Maria Pia Hospital di Torino afferma: “Non esistono sfide impossibili. La letteratura pubblica da anni lavori in cui si evidenzia che la mortalità dei pazienti  testimoni di Geova in urgenza è alta tanto quanto quella dei pazienti in urgenza sottoposti a trasfusioni”. (Libero 15 aprile 2019). Sulla stessa falsa riga il dottor Massimo Franchi professore di ostetricia e ginecologia all’Università degli Studi di Verona e direttore dell’Unità operativa di ostetricia e ginecologia presso l’Azienda ospedaliera universitaria di Verona. Alla domanda se avesse visto morire qualcuno che aveva rifiutato una trasfusione ha risposto: “Nella mia esperienza clinica di oltre 30 anni non ho mai avuto esperienze di questo tipo e neanche in qualità di medico legale.  Non è corretto dire che una persona morirà perché non accetta il sangue. E’ una situazione complessa e andrebbe rivista da caso a caso. Non possiamo escludere niente, ma non possiamo escludere neanche la morte da trasfusione”.

E proposito dei rischi derivanti dalle trasfusioni secondo la rivista Nature, una delle più autorevoli in campo scientifico, “la trasfusione di sangue più sicura è quella che non viene somministrata” (Save blood, save lives – Nature, Vol 520, 2 April 2015, pp. 24-26).

“Se n’è accorta anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità – si legge in comunicato di presentazione del convegno di Padova il 24 novembre 2017  dal tema «BSave 2017, tavola rotonda con i maggiori esperti italiani di diritto, medicina legale e «bloodless medicine»  patrocinato dal Ministero della Salute – che, sulla base di tali consolidate evidenze coniugate ad un elevato costo economico per utilizzo e gestione degli emocomponenti  ed alle sempre maggiori difficoltà di approvvigionamento di materiale ematico sicuro, dal 2010 promuove il programma di Patient Blood Management (PBM) approvando una risoluzione vincolante per gli stati membri; non è solo il «buon uso del sangue», ma si tratta di una strategia multidisciplinare e multimodale che mette al centro la salute e la sicurezza del paziente, ottimizza la risorsa-sangue del singolo, migliora i risultati clinici e riduce in modo significativo l’utilizzo dei prodotti del sangue, affrontando tutti i fattori di rischio trasfusionale modificabili, ancor prima che sia necessario prendere in considerazione il ricorso alla terapia trasfusionale stessa”.

Resta una questione fondamentale al quale abbiamo accennato che emerge chiaramente nel caso succitato: cosa dice la Legge Italiana sui diritti del paziente e il dovere del medico?

E’ interessante che i Padri Costituenti mostrarono notevole lungimiranza scrivendo l’articolo 32 della Costituzione che recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” Questo principio è stato ulteriormente disciplinato nel 2017 con la Legge 219 sul consenso informato e le direttive anticipate (DAT) che prevede il diritto alla rinuncia di alcuni trattamenti sanitari, come nel caso del sangue in favore di altri. Il medico deve dunque rispettare la volontà del paziente e il magistrato non può imporre al medico di non rispettarle.  

Per concludere, è certamente inappropriato e fuorviante il termine “suicidio assistito” utilizzato dal primario Gianfausto Iarrobino e ripreso molto superficialmente da molte testate giornalistiche. La sentenza della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019 sulla punibilità o meno nei confronti di chi presta aiuto al suicidio, non ha niente a che vedere con chi sceglie una terapia alternativa all’uso di emotrasfusioni, che come precisato dalla Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 2018 è “una procedura non esente da rischi”. Lo stesso dicasi della parola “eutanasia” parafrasata in un hastag dal medico nel suo oramai famoso post, che chiaramente, non ha nessun senso in un contesto giuridico come quello italiano. Anzi secondo alcuni, il racconto del medico avrebbe anche calpestato la deontologia professionale e la privacy dei pazienti, esponendo a una gogna mediatica alcuni cittadini, appartenenti a un culto riconosciuto giuridicamente dallo Stato Italiano da diversi anni.

Roberto Guidotti

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