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Comunismo, cristianesimo e proprietà privata. Riflessioni sui “beni in comune”

Roma – Quella di domenica 11 aprile sarà ricordata come una delle omelie di Papa Francesco che più hanno suscitato curiosità, perplessità e critiche nella pubblica opinione, almeno negli ultimi tempi.

“Gli Atti degli Apostoli raccontano che “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” e questo “non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro”. Con queste parole Papa Francesco ha commentato la condivisione dei beni attuata dalla prima comunità cristiana. Già nel novembre scorso il Papa aveva parlato della proprietà privata e del fatto che il suo diritto “non è intoccabile”

C’è chi ha apprezzato e chi ha duramente criticato l’argomentazione del Papa. Per alcuni si è trattata di una vera e propria “sfida al capitalismo”. Altri hanno rievocato un Gesù protosocialista “la cui predicazione era di stampo comunistoide, pauperista, ostile ai ricchi possidenti e commercianti dell’epoca”. C’è chi invece, come  Antonio Socci, ha parlato palesemente di “ipocrisia”. “Il riferimento papale  – si legge su Libero – a quel passo degli Atti, per attaccare la proprietà privata, è anche controproducente. La Chiesa oggi ha un patrimonio immobiliare enorme. Il Mondo, anni fa, scriveva che «un quarto di Roma, a spanne, è della Curia».

L’uomo “comune” o “della strada”, se considera le parole del Papa, verosimilmente può avere due reazioni che potremmo definire classiche per questi tipo di argomentazione: ammirare il pensiero “francescano” di Papa Bergoglio per il concetto espresso sulla condivisione materiale delle risorse con i più poveri. Oppure obiettare che chi ha lavorato una vita non è tenuto moralmente a spartire parte dei suoi beni con chi non ha preso mai sul serio il lavoro…

A di là delle opinioni, l’analisi del contesto dell’episodio estrapolato dagli Atti degli Apostoli mostra che i primi cristiani non erano fautori di un’ideologia politica, ma erano autenticamente e semplicemente altruisti. “Questo avere ogni cosa in comune – si legge nel libro Protocristianesimo – non era un’esigenza teologica cristiana… ma nasceva da una situazione contingente.” In quell’anno le migliaia di persone affluite a Gerusalemme per la celebrazione pasquale che ascoltarono la predicazione degli apostoli e si convertirono, consapevoli della necessità di consolidare la nuova fede, si trattennero a Gerusalemme più del tempo previsto. Come aiutare questa grande massa di persone a livello alberghiero? “La generosità e l’amore per l’opera dei nuovi compagni di fede spinsero i cristiani locali a vendere alcune proprietà e a mettere il ricavato a disposizione del corpo direttivo ovvero dei Dodici, affinché si fronteggiasse a queste esigenze reali e immediate” (Protocristianesimo- Andrea Filippini)

Dunque non si trattò di un modus operandi della neonata comunità cristiana ma di un’esigenza che sarebbe stata replicata se un fedele avesse condiviso liberalmente la propria casa o il proprio cibo. Una disposizione a tempo. In quel frangente i cristiani tornarono nelle rispettive case e essa cessò. All’occorrenza sarebbe stata riadattata spontaneamente.

Alcuni secoli dopo Tertulliano ribadirà che, quando era necessario, i cristiani non indugiavano “a metter in comune i beni”. Altre opere caritatevoli sono riferite nel Nuovo Testamento, per esempio quando sorgevano le carestie. Inoltre in primo piano emergeva l’assistenza agli orfani e alle vedove, che diveniva un requisito improrogabile della religione cristiana.

Quindi non una forma di comunismo ma nemmeno un tentativo di riforma sociale ed economica all’interno della comunità cristiana, ne tantomeno della società esterna. Dalle epistole di Paolo e Pietro viene la raccomandazione di uno stile di vita rispettoso delle leggi di “Cesare” o di qualsiasi altra autorità costituita.

Quei cristiani vivevano in attesa della parusia, ovvero il ritorno o presenza di Cristo che alla fine dei tempi avrebbe portato il Regno di Dio sulla terra. Un’attesa escatologica che permeava tutte le convinzioni di fede dei primi cristiani con un solo vero compito da portare aventi nel frattempo: quello di evangelizzare il mondo intorno al Regno e Gesù, mantenendo una completa equidistanza dalle controversie politiche e militari del tempo.

Ingiustizie, disuguaglianze, prevaricazione, sfruttamento e altro presenti al tempo degli apostoli, sarebbero cessate grazie a quel Regno ovvero quel “governo tangibile attraverso il quale il potere del cielo irrompe sulla storia dell’uomo e si manifesta sulla terra comportando un rovesciamento totale dello status quo”. (La dinastia di Gesù, James Tabor). Anche dopo la morte dei Dodici Giustino Martire, Papia di Gerapoli, che secondo la tradizione conobbe l’apostolo Giovanni, Policarpo e Ireneo di Lione continuano a prestare fede all’arrivo del Regno di Dio dalla durata di mille anni. Innestando i vaticini dei profeti del Vecchio Testamento con il secondo Avvento di Cristo sulla terra, quello che prospettavano era un regno terreno dove tutti avrebbero avuto case e cibo a sufficienza, ridistribuito questa volta effettivamente in maniera equa. Il tutto grazie non a piani economici quinquennali ma “alla benedizione del Signore”. (Dialogo con Trifone, Giustino Martire)

Ireneo scrive che “in quei giorni un grano di frumento produrrà diecimila spighe e ciascuna spiga avrà diecimila grani e ogni grano darà 25 libbre di farina pura…” Dunque le risorse della terra a disposizioni di “tutti i giusti”. Citando i profeti aggiunge che “edificheranno case e le abiteranno: pianteranno vigne, ne mangeranno i frutti e berranno vino; non edificheranno e alcuni altri abiteranno: non faranno alcuni la pasta e altri mangeranno”. (Contro le eresie, Vol. II, Ireneo di Lione)

Col tempo quell’attesa escatologica svanirà e il Regno dei mille anni sulla terra sarà interpretato al tempo di Sant’Agostino in maniera allegorica.

La New Encyclopædia Britannica spiega: “Il ritardo della parusia indebolì l’attesa della sua imminenza in seno alla chiesa primitiva. In questo processo di ‘descatologizzazione’ la chiesa istituzionale sostituì sempre più l’atteso Regno di Dio. La formazione della Chiesa Cattolica come istituzione gerarchica è direttamente legata al declino dell’attesa”. A cambiare definitivamente la prospettiva fu Agostino Vescovo di Ippona (354-430). Nella sua famosa opera La città di Dio (XX, 9, 1), egli affermò: “Anche oggi dunque la Chiesa è il regno di Cristo e il regno dei cieli”. Questo assunto fornì la base ideologica del potere temporale della Chiesa sulla terra.

Oggi sono pochi i gruppi cristiani, i Testimoni di Geova, gli Avventisti e poche altre chiese restaurazioniste che contemplano nella loro esegesi biblica la realizzazione apocalittica del Regno di Dio sulla terra. Per quest’ultimi le previsioni vecchie e neotestamentarie vanno attribuite alla nostra era. Le chiese principali di fatto sembrano aver rinunciato a questo tipo di attesa. Il Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento spiega: “Al posto dell’escatologia neotestamentaria con la sua speranza nella risurrezione dei morti e la nuova creazione (Ap 21s), è subentrata la dottrina teologica circa l’immortalità dell’anima: l’anima del giusto viene giudicata subito dopo la morte e va in paradiso”.

La catastrofica storia dei tentativi di realizzare politicamente “il paradiso in terra” ad opera del socialismo la conosciamo tutti. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, in ogni caso, il giornale tedesco Die Zeit  richiamava l’attenzione suoi problemi quali “disoccupazione, alcolismo e droga, prostituzione, tagli nei programmi sociali, riduzione del gettito fiscale e conseguenti deficit economici” e poi chiedeva: “È veramente questa la società perfetta che ha trionfato per sempre sul socialismo?” Anni dopo la famosa forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi e tra le cause che alimentano le disuguaglianze oltre alla ricerca del profitto, si aggiungono ora anche le conseguenze dei cambiamenti climatici e infine pure la pandemia da Covid-19, che fanno sperare ben poco per il futuro.

Se è impossibile la realizzazione di una economia pianificata mondiale e una completa equità delle risorse della terra cooptata da qualche governo, è pur vero che sperare in un cambiamento, che veda tutti gli uomini spontaneamente altruisti, filantropi, caritatevoli e disposti a ridistribuire la propria ricchezza con il prossimo, è così improbabile da divenire una chimera vera propria. Un’utopia che non avrebbe nulla da invidiare a quelle di Tommaso Moro, Proudhon e Marx. Questo malgrado gli sforzi sinceri di tante persone.

Roberto Guidotti

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