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L’anima, la vita e la morte. Spiegazioni recenti e ciò che significano oggi

L‘anima, la vita e la morte. Spiegazioni recenti e ciò che significano oggi

Lo scorso novembre, commentando la morte del batterista dei Pooh Stefano D’Orazio, un noto giornalista televisivo in una trasmissione popolare della domenica affermava :“Stefano suonerà la batteria in cielo. Forse in cielo avevano bisogno di un batterista.” Commentando su twitter la morte di Diego Armando Maradona, l’altro grande del calcio mondiale, Pelè ha scritto. “Che triste notizia. Ho perso un grande amico e il mondo ha perso una leggenda. C’è ancora molto da dire, ma per ora possa Dio dare forza ai membri della famiglia. Un giorno, spero che potremo giocare a palla insieme nel cielo”. Restando in ambito sportivo, sono numerosissimi  gli sportivi che dopo una vittoria o dopo un gol guardano il cielo e ringraziano con parole o gesti… chi da lassù vigila, protegge e aiuta chi in terra gioca e compete in una gara…

Questa quasi universale e secolare se non millenaria convinzione in cui credevano i popoli mesopotamici anche prima di Socrate, Platone e dei greci, che l’anima di un deceduto è ora in cielo vivente e cosciente, potrebbe essere messa dubbio teologicamente da una spiegazione data in un articolo di Famiglia Cristiana, dal Cardinale arcivescovo e biblista Gianfranco Ravasi. L’articolo è apparso il 19 agosto sul blog dal tema “50 parole ebraiche usate da Gesù”.

Venivano prese in esame da un punto di vista etimologico e dottrinale le parole ebraiche Basàr e Nèfesh tradotte nelle Sacre Scritture carne e anima. Le argomentazioni che facilmente potrebbero sembrare disquisizioni metafisiche interessanti solo per biblisti, teologi o studiosi, hanno a che fare invece con l’essenza stessa dell’uomo, della vita, del futuro e della morte stessa. Purtroppo l’idea che si possa morire e le domande ultime su chi siamo e dove andremo sono escluse dal dibattito pubblico, quasi che ignorandole non ci riguardassero. Invece non è glissando sull’argomento morte e su ciò che accade dopo, che la morte si possa rimandare o far sparire. Oggi però, parafrasando Freud, agli uomini e alle donne piace pensare o parlare più di Eros che di Thanatos, nonostante quello che si vede intorno a noi, fra guerre, terrorismo, carestie, epidemie e tanto altro.

Ma tornando all’articolo di Ravasi, di notevole è la spiegazione proposta a proposito della parola Nèfesh: “Nèfesh è, però, anche il principio vitale che costituisce la nostra identità di creature viventi: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente (nèfesh)” (Genesi 2,7). Progressivamente il vocabolo è destinato a identificare l’”io” della persona, la sua stessa esistenza,… In sintesi possiamo dire che il nèfesh è una realtà dalle molteplici sfaccettature, destinata a definire la nostra qualità di creature viventi. È la nostra corporeità viva, tant’è vero che si afferma che “il sangue è nèfesh e tu non devi mangiare il nèfesh insieme con la carne (bàsar)”. L’articolo si concludeva così: “Come è stato scritto da uno studioso, “Nèfesh è l’essere stesso dell’uomo e non un suo possesso””.

L’anima, insomma, è la nostra “corporeità viva” o il nostro stesso essere e non qualcosa che si possiede. Il primo uomo, in carne e ossa, creato da Dio è un essere (nèfesh) vivente afferma la Genesi.

Il problema evidentemente è la differenza con ciò che è insegnato nel Catechismo cattolico. In un articolo su Avvenire del 25 luglio 2016 che commentava il documento Ad resurgendum cum Christo sulla cremazione si leggeva: “Mentre il corpo infatti, recita il Catechismo della Chiesa cattolica, cade nella corruzione, l’anima, che è immortale va incontro al giudizio divino in attesa “di ricongiungersi al corpo quando, al ritorno del Signore, risorgerà trasformato”. Lo stesso articolo affermava “Saremo giudicati sull’amore, ripetono i padri della Chiesa. E con loro, lo ribadisce spesso anche papa Francesco. Di sicuro, a fare la differenza, sarà il comportamento che abbiamo tenuto in questa vita, alla luce di quanto indica il Vangelo. Una volta morti, comunque, andremo incontro al “giudizio particolare”, una sorta di conseguenza diretta, di retribuzione immediata, per la nostra fede e le nostre opere. L’effetto sarà l’ingresso, diretto o dopo un periodo di purificazione, nella beatitudine del cielo, oppure, Dio non voglia, nella dannazione eterna”. In sintesi le anime dei buoni vanno o in cielo e quelle dei cattivi in uno stato di dannazione eterna. Dottrina tradizionale e accettata da molti, ma non proprio somigliante alla spiegazione biblica rilasciata da Ravasi.

Per inciso va detto, senza entrare troppo nello specifico, che anche altre religioni insegnano una vita eterna in un ambiente celestiale dopo la morte. Per esempio alcuni musulmani in un’interpretazione estrema dei passi coranici, forgiano uomini e donne kamikaze disposti a suicidarsi e massacrare innocenti per la ricompensa proposta loro da alcuni maestri religiosi, legata proprio al concetto di sopravvivenza spirituale dopo la morte.

Tornando a Ravasi è interessante che quando si sofferma sul significato di carne e sangue nel passo di Deuteronomio scrive: “È sulla lettura letteralista di questo passo, destinato in realtà a tutelare la vita, che i Testimoni di Geova proibiscono la trasfusione di sangue.” La frase sembra una forzatura dialettica, un’aggiunta priva di connessione, quasi un interpolazione visto il mancato legame dell’argomentazione con la nota posizione sulle emotrafusioni dei Testimoni di Geova, mutuata –  a detta degli interessati- anche da passi del Nuovo Testamento. Un argomento che richiederebbe un approfondimento in tutt’altro contesto indipendentemente dalle posizioni in campo.

L’articolo poteva chiamare in causa forse il condizionalismo, il mortalismo, gli eretici del passato, ma non si capisce perché citi a sorpresa un’altra confessione cristiana, minoritaria nel mondo rispetto ai cattolici, ai protestanti e gli ortodossi. A meno che, il problema sia costituito dai suddetti testimoni, che da sempre affermano – preceduti comunque da William Tyndale, John Milton, John Locke, Isaac Newton e da gruppi avventisti –  che l’anima “è l’individuo nella sua interezza e che per anima si intende una persona o un animale, o la vita che la persona o l’animale ha in quanto tale”. In pratica il significato che Ravasi ha attribuito al termine originale nèfesh.

Più che un’excusatio non petita, sembra quasi un tentativo a priori di smorzare l’entusiasmo di coloro che potrebbero rivendicare se non la paternità, la diffusione in lungo e in largo del concetto espresso dal cardinale. Un allineamento di posizioni abbastanza sorprendente e per certi versi imbarazzante per i cattolici abituati a considerare l’anima l’elemento spirituale che lascia il corpo dopo l’ultimo respiro.

Ma ragionamenti di questo registro difficilmente hanno una eco sull’opinione pubblica o innescano discussioni fra la gente comune. Di solito sono lasciati ai cosiddetti “esperti in materia”. Eppure secondo alcuni calcoli, ogni minuto nel mondo muoiono più di 100 persone. E questa non è solo teologia.

Roberto Guidotti

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