Il film storico stasera in TV: “Menocchio” lunedì 28 febbraio 2022 alle 21.30 su TV 8

Menocchio è un film italiano del 2018 diretto da Alberto Fasulo ed interpretato da Marcello Martini, Maurizio Fanin e Roberta Potrich.
Nell’Italia di fine Cinquecento il mugnaio friulano Menocchio viene accusato di eresia quando si scaglia contro la Chiesa cattolica.
Domenico Scandella, detto Menocchio, diminutivo popolare di Domenico (Montereale Valcellina, 1532 – Portogruaro, 1599 circa), fu un mugnaio friulano, processato e giustiziato per eresia dall’Inquisizione.
La sua vicenda è stata resa nota dallo storico Carlo Ginzburg nel saggio Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, pubblicato nel 1976.
Nel 2018 la vicenda di Menocchio è stata trasposta cinematograficamente nel film Menocchio del regista Alberto Fasulo, che non si è rifatto al libro di Ginzburg ma ai documenti e alle ricerche successive di Andrea Del Col[1]. Il film è stato presentato in concorso al Festival di Locarno.
A parte un bando di due anni nella vicina Arba, nel 1563, per rissa, Menocchio visse sempre nel paese di Montereale, che contava allora circa 650 abitanti, mantenendovi la numerosa famiglia composta dalla moglie e da sette figli con il reddito ricavato da due campi e due mulini presi in affitto; era anche muratore e falegname. Nel 1581, sapendo leggere, scrivere e far di conto, fu podestà di Montereale e dei villaggi circostanti, e amministratore della locale pieve.
Il 28 settembre 1583 il pievano di Montereale, don Odorico Vorai, istigato da un altro prete, Ottavio Montereale, lo denunciò anonimamente al Sant’Uffizio con l’accusa di avere opinioni eretiche su Cristo. Numerose furono le testimonianze che confermarono e allargarono il campo delle accuse, cosicché il 4 febbraio 1584 l’inquisitore di Aquileia e Concordia, il francescano Felice da Montefalco, ordinò il suo arresto e la carcerazione nella prigione di Concordia; il 7 febbraio Menocchio fu interrogato per la prima volta.
Espose un’originale concezione del mondo: all’inizio «tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume, andando così, fece una massa, aponto come si fa[2] il formazo nel latte, et in quel diventorno[3] vermi, et quelli furno[4] li angeli […] et tra quel numero de angeli ve era anco Dio, creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo; et fu fatto signor con quattro capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volse farsi signor alla comparation del re, che era la maestà de Dio, et per la sua superbia Iddio commandò che fusse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine […] Dio fece poi Adamo et Eva, et il popolo in gran multitudine per impir[5] quelle sedie delli angeli scacciati. La qual multitudine, non facendo li commandamenti[6] de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso».
Di Gesù Cristo, precisato che fu crocifisso e non impiccato, disse che «era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo fioli[7] de Dio et di quella istessa natura che fu quel crucifisso; et era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque de s. Iseppo et de Maria vergine».[8] Sulla verginità di Maria nutriva però dei dubbi – perché «tanti huomini sono nati al mondo et niuno è nato di donna vergine» – e anche perché aveva letto ne Il fioretto della Bibbia, una traduzione di una cronaca catalana medievale che egli aveva comperato a Venezia per due soldi, che «san Iosepo chiamava nostro signor Iesu Christo per figliolo». Ma non solo: citando un libro che chiamò Rosario o Lucidario della Madonna – forse da identificarsi con il Rosario della gloriosa Vergine Maria del domenicano Alberto da Castello[9] – Menocchio dichiarò che Maria era chiamata vergine solo perché era stata «nel tempio delle vergini, perché l’era un tempio dove si tenivan dodeci vergini, et secondo che si allevavan si maritavan», intendendo semplicemente per vergine una qualunque ragazza da marito.
Menocchio doveva essere persona di pronta parola, sicuro delle convinzioni che si era fatto, avendo con il suo «cervel sutil[10] […] voluto cercare le cose alte et che non sapeva»; ma le sue convinzioni riflettevano certo l’esperienza della propria vita: così, nel costituto del 28 aprile 1584, tenuto nel palazzo del podestà di Portogruaro, la sua osservazione che nelle liti giudiziarie il latino, la lingua della Chiesa, si rivelava «un tradimento de’ poveri perché […] li pover’homini non sanno quello che si dice […] e se vogliono dir quatro parole bisogna haver un avocato», si legava alle successiva, che «il papa, cardinali, vescovi, sono tanto grandi e ricchi» e sfruttano i poveri, perché «tutto è de Chiesa et preti», per derivarne che la stessa religione dovesse essere chiara, come la lingua che parlano i poveri, e semplice, come sono semplici i poveri e avrebbe dovuto essere anche la Chiesa: «Vorrìa che si credesse nella maestà de Dio, et esser homini de ben, et far come disse Giesù Cristo, che rispose a quelli Giudei che li dimandavano che legge si dovesse haver, et lui li rispose “Amar Iddio e amar il prossimo”». E da questa semplicità di concezione religiosa faceva derivare che i fedeli di tutte le confessioni si equivalevano, cristiani ed eretici, Turchi e Giudei, perché Dio «li ha tutti cari et tutti si salvano a uno modo».
In un crescendo di rigetto della comune ortodossia, Menocchio respinse i sacramenti come invenzione umana: il battesimo, «quel batezar è un’inventione et li preti comenzano a magnar le anime avanti che si nasca, et le magnano continuamente sino doppo morte», la cresima, «una mercantìa», il matrimonio, «l’hanno fatto li huomini: prima l’homo et la donna si davan la fede, et questo bastava», l’ordinazione sacerdotale, «credo che il spirito de Dio sia in tutti», l’estrema unzione, «si onge[11] il corpo et il spirito non si può ongere», la confessione, «andare a confessar da preti et frati, tanto è che andar da un arboro», mentre l’eucaristia lo soddisfaceva: convinto però che nell’ostia non vi fosse Cristo, ma lo Spirito Santo, «maggior de Christo che era homo», a Menocchio piaceva «il sacramento che quando uno è confessà si va a communicar, et si piglia il Spirito Santo, et il spirito sta allegro». E a rendere problematico un suo inquadramento inquisitoriale fra gli eretici luterani, si espresse con rispetto sul papa e sulle indulgenze: «se Iddio ha messo un huomo in suo loco che è il papa, manda un perdon, è buono perché par che si riceva da Iddio» e mostrò di non capire affatto cosa fosse la giustificazione, punto nodale di aspro contrasto fra cattolici e protestanti che del resto, dibattuto nei circoli colti, poteva entrare bensì nella circolazione della cultura cittadina, non già divenire un tema proprio di una cultura contadina.
Della Scrittura sarebbero bastate «quattro sole parole» perché, data da Dio, gli uomini vi aggiunsero del loro, mentre ora «è stata ritrovata per ingannar gl’huomini»; quanto ai santi, «huomini da bene […] che pregano per noi», non bisogna venerarne le immagini e nemmeno le reliquie, mentre Cristo morì per amor nostro ma non redense nessuno, perché «se uno ha peccati, bisogna che lui faccia penitentia».[12] Per guadagnarsi il paradiso – sostenne nel costituto del 1º maggio – basta amare e santificare Dio, ed essere caritatevole, pacifico, obbedire a chi comanda, perdonare le ingiurie e mantenere le promesse, evitando le «sette opere che dispiaceno a Iddio», ossia «robar, assassinar, far usura, far crudeltà, far vergogna, far vituperio et homicidio».[13]
Gli inquisitori – che ebbero anche il dubbio di avere a che fare con un pazzo o un burlone – cercarono di esperire se Menocchio si fosse formato tali opinioni da sé o se fosse stato in qualche modo istruito da altri, ma ne ebbero un diniego: eppure un personaggio che aveva avuto interessanti rapporti con Menocchio vi era stato e fu anche interrogato, ma fu subito rilasciato. Si trattava di un Nicola de Melchiori o Nicola da Porcia, paese delle vicinanze, un pittore evidentemente di valore molto modesto, probabilmente di cassoni e arredi, visto che di esso non è rimasta alcuna testimonianza artistica, bensì quella giudiziaria di un nobile di Pordenone che nel 1571 lo definì «homo eretichissimo»,[14] avendolo sentito esprimersi contro la presenza di immagini nelle chiese. Egli aveva prestato a Menocchio una copia del Decamerone di Boccaccio e una de Il sogno dil Caravia, un poemetto del veneziano Alessandro Caravia, pubblicato nel 1541: quest’ultimo era certamente un libro che, in un contesto di satira popolare, manteneva sì un’ispirazione luterana, lontana tuttavia dalle posizioni dissacranti di Menocchio.[15]
Insieme con il diniego di aver appreso da amici molte delle teorie che aveva fatto proprie, oppose piuttosto la lettura da lui fatta dei Viaggi di sir John Mandeville, di un anonimo autore francese del XIV secolo, essendo il nome di John Mandeville un semplice pseudonimo, tradotto per la prima volta in italiano alla fine del Quattrocento e più volte stampato a Venezia, nel quale sono narrati i viaggi compiuti tanto in Terrasanta – con osservazioni realistiche e probabilmente di prima mano – che nel lontano Oriente, nelle mitiche terre dell’India e della Cina, fino a raggiungere il paradiso terrestre e il regno del leggendario Prete Gianni.
In quel libro imprestatogli dal cappellano di Montereale, don Andrea da Maren, si trovano riscontri di talune affermazione di Menocchio: così il Mandeville riporta che in Palestina gli Jacobini, cristiani convertiti da san Giacomo, rifiutano la confessione auricolare, sostenendo che occorra ammettere i propri peccati solo a Dio direttamente, che secondo i maomettani, al posto di Gesù, «il più eccellente dei profeti», fu crocefisso Simone di Cirene, un’affermazione, questa, che pure Menocchio avrebbe fatto a un suo amico; che nella favolosa isola di Dondina i cadaveri son mangiati dai parenti e dagli amici, che giudicavano dalla grassezza della carne se il morto fosse stato un uomo senza peccato ovvero, dalla sua magrezza, si rimproveravano di averlo fatto patire in vita. E Menocchio, da questa narrazione, trasse la conclusione che «morto il corpo morisse anco l’anima, poiché di tante e diverse sorte de nationi chi crede a un modo e chi a un altro».[16] Se l’interpretazione letterale della leggenda veniva distorta da Menocchio, egli aveva però tratto, da questa e altre narrazioni favolose, l’importante conclusione che ogni popolo ha diverse usanze e sue diverse fedi e di qui che, credendo ciascuno buona la propria fede, nessuno in realtà potesse vantare come migliore e certa la propria.
Questo fondamentale concetto – un’espressa legittimazione dell’idea di tolleranza – sarà apertamente ribadito da Menocchio nel secondo processo subito nel 1599: per intanto egli, nel costituto del 12 maggio 1584, diede spiegazione delle fonti da cui aveva tratto quella così bizzarra cosmogonia che tanto aveva sbalordito i suoi inquisitori.
Regia di Alberto Fasulo
Con Marcello Martini, Maurizio Fanin e Roberta Potrich
Fonte: WIKIPEDIA