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Festa della mamma, dal CISOM storie di solidarietà e rinascita

Festa della mamma

Festa della mamma, dal CISOM storie di solidarietà e rinascita

Roma – “In occasione della Festa della Mamma il mio augurio speciale va alle madri, volontarie del CISOM, che ogni giorno conciliano vita personale, famigliare, professionale e, senza risparmiarsi in fatto di impegno, competenze e disponibilità, si mettono al servizio della comunità. Se c’è una calamità naturale, un servizio sanitario da svolgere, persone bisognose di un pasto caldo e di una coperta, voi ci siete e tendete la mano verso chi chiede aiuto. Grazie per il vostro impegno e per la dedizione”. È il messaggio che Gerardo Solaro del Borgo, Presidente del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta – CISOM ha rivolto alle volontarie impegnate ad assistere i più vulnerabili, sia in Italia che all’estero. Sono tante le donne, mamme, sorelle, mogli presenti e operative nelle grandi emergenze, nelle missioni internazionali, nei porti o a bordo dei mezzi della Guardia Costiera, per prestare soccorso e assistenza ai migranti, al confine con l’Ucraina per aiutare chi fugge dal paese in guerra, per le vie delle nostre città per stare vicino a chi ha perso tutto, per prendersi cura delle categorie più deboli che vivono ai margini della società, dai senza fissa dimora a cui, oltre al cibo e un indumento pulito, viene fornita un’assistenza sanitaria, alle persone anziane e sole che per motivi di salute non escono da casa e sono prive di una rete familiare e di sostegno.

Tante le donne e madri volontarie sono impegnate anche nel progetto a Rogoredo per aiutare i giovani a rischio e tossicodipendenti, frequentatori abituali del famigerato Boschetto dove con pochi euro è possibile trovare ogni tipo di sostanza stupefacente. Proprio qui tre anni fa le vite di due volontarie, Claudia e Annabella, si sono incrociate con quella di Sara (nome di fantasia), una giovane ragazza, con alle spalle una dipendenza dalla droga da cui sta uscendo grazie a suo figlio e al sostegno del CISOM.

Sono molto legata a loro, è come se avessi avuto due mamme, hanno riempito quel vuoto lasciato dalla mia. Sentivo che mi volevano bene”. Sara descrive così le due donne che le hanno permesso di tornare a sognare un futuro per sé e per il bambino. Si sono conosciute nel 2019, quando Sara scoprì di essere incinta e con il compagno ha chiesto aiuto ai volontari del CISOM – presenti ogni settimana con un presidio fuori alla Stazione di Rogoredo – per iniziare un percorso di disintossicazione. Oggi Sara ha 23 anni e se le chiediamo di suo figlio risponde “Mio figlio mi ha salvato la vita, è il solo motivo che mi ha spinta a chiedere aiuto e a iniziare un percorso di disintossicazione”. Entro l’anno madre e figlio usciranno dalla comunità. “Sono alla fine del percorso. Chi l’avrebbe mai detto che sarei riuscita ad arrivare fino a questo punto”.

Di seguito la testimonianza di Sara, una ragazza con un passato di dipendenza da sostanze stupefacenti, da cui sta uscendo grazie al suo bambino e al sostegno delle volontarie del CISOM conosciute a Rogoredo.

“Mio figlio mi ha salvato la vita, è il solo motivo che mi ha spinta a chiedere aiuto e a iniziare un percorso di disintossicazione”.

Comincia così la storia di Sara (nome di fantasia)che ha scelto di rendere pubblica la sua esperienza di tossicodipendenza iniziata all’età di 14 anni, con lo speed e chetamina:“All’inizio gli stupefacenti mi servivano per divertimento, quando andavo a ballare”. Poi è subentrata la dipendenza e la scoperta del Bosco di Rogoredo, alla periferia di Milano, un vero e proprio supermercato dell’eroina, aperto h24 e 7 giorni su 7: “Le cose sono cambiate quando mia madre si è ammalata di tumore, stavo male a vederla in quelle condizioni. Conobbi persone che frequentavano il Bosco e che si facevano di cocaina ed eroina, così sono entrata nel giro per allontanarmi da quello che avevo in casa, per placare quei sentimenti negativi che provavo per via della salute di mia madre. Mi aiutava a non pensare”. Un incidente con il motorino le cambiò la vita, in meglio: “Nel 2019 con il mio compagno siamo finiti in ospedale. Dalle analisi di routine è emerso che ero al quarto mese di gravidanza. Ero contenta e preoccupata insieme. Cosa potevo offrire a questo bambino? Non avevo una casa, un lavoro, ero sola. I rapporti con mio papà si erano interrotti quando avevo 17 anni. In un’altra situazione avrei gioito, ma ero consapevole che la vita che facevo non andava bene per un bambino”. Fu allora che lei e il compagno chiesero aiuto a Claudia e Annabella, due volontarie del Team Rogoredo del CISOM, da anni attivo nel recupero dei ragazzi che frequentano e vivono il boschetto.

Si rivolsero a noi spiegando che Sara era incinta e che volevano disintossicarsi, perché intenzionati a tenere il bambino. Si erano resi conto del pericolo che correvano. – racconta Claudia, volontaria dal 2015 del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta – CISOMCi siamo scambiati i numeri di cellulare con la promessa che li avremmo aiutati”. E così, dopo circa un mese, i due giovani entrarono al Sollievo, struttura nata all’interno dello SMI[1], la prima fase verso la disintossicazione vera e propria. “Dapprima non ero convinta, pensavo agli assistenti sociali, al Tribunale dei Minori, temevo che, una volta nato, mi avrebbero tolto il bambino. Non mi preoccupavo della disintossicazione, su quella ero convinta. – racconta Sara ripensando a quei giorni in cui le tentazioni di cadere nuovamente nella droga erano forti – È stata una gravidanza tosta, le nausee mi hanno accompagnata per tutti i 9 mesi, avevo sbalzi di umore dovuti in parte agli ormoni ma anche perché, non appena scoperto di essere incinta, avevo interrotto tutte le terapie farmacologiche, ad esclusione del metadone. Quest’ultimo, in accordo con il medico del Sert, ho iniziato a scalarlo di settimana in settimana, cosa sconsigliata in gravidanza, ma ho pregato il medico di ridurlo più lentamente perché avevo paura che mio figlio nascesse in astinenza ed era una cosa che proprio non riuscivo a concepire. Una settimana dopo il parto avevo smesso anche quello. A novembre, al termine della gravidanza, subentrò qualche complicanza, così i medici decisero di indurre il parto”.

Da lì la vera svolta della vita di Sara: “Alla vista di mio figlio per la prima volta ho provato una sensazione difficile da descrivere. Meraviglioso, era la luce guardarlo negli occhi. Sono rimasta in ospedale due mesi, una volta dimessa ero più concentrata sugli obiettivi che volevo raggiungere, sapevo che ce l’avrei fatta. La mia sola preoccupazione era la permanenza in comunità, il percorso minimo è di 18 mesi e la sola idea di trascorrere così tanti mesi lì dentro mi agitava”.

Sara e le due volontarie CISOM, Claudia e Annabella, in questi due anni non si sono perse di vista, è anche grazie a loro se questa giovane madre può tornare a sognare un futuro per sé e per il bambino: “Sono molto legata a loro, è come se avessi avuto due mamme, hanno riempito quel vuoto lasciato dalla mia. Sentivo che mi volevano bene. Ci siamo sempre sentite e scritte, nei limiti del possibile perché il regolamento della comunità, nei primi mesi di percorso, prevede una chiamata a settimana con i famigliari”.

A sentire la volontaria Claudia, invece, il merito per avercela fatta è tutto di Sara: “Si è tirata fuori da sola, noi le abbiamo dato le informazioni, messo a disposizione i mezzi e le possibilità, ma l’impresa l’ha compiuta lei. Ha tirato fuori tutta la sua forza e tenacia e non ha mai mollato, anche se mi ha raccontato che le capitava di sognare il Bosco. Ho rivisto Sara poco più di un mese fa davanti a un caffè, non ci vedevamo di persona da due anni a causa del Covid-19 e del programma di disintossicazione in comunità che, almeno all’inizio, le impediva di avere contatti con l’esterno. Davanti a me c’era una donna felice, una bellissima ragazza, con un sorriso meraviglioso. La droga è un mostro potentissimo che ti prende, spesso distrugge tutto di te, anche la volontà di fare. Nessuno dei volontari CISOM che presta servizio a Rogoredo si sente un salvatore perché quando ce la fanno è grazie a loro stessi”.

Sara e il papà di suo figlio hanno scelto di comune accordo di fare due percorsi differenti “Gli sono stata dietro per molto tempo. Era difficile staccarmi da lui, ci siamo messi insieme che avevo 16 anni, mi è stato vicino quando mia madre è morta. Entrava e usciva dalla comunità; poteva venire a trovarci ma ogni volta c’era un problema e quindi le visite sono diminuite. Ci sentivamo al telefono ma neanche così le cose miglioravano. Ero chiusa in comunità e nel giro di pochi mesi c’è stato il primo lockdown. Un momento di grande difficoltà, faticavo a rimanere concentrata sul mio percorso”.

Oggi Sara ha 23 anni e se le chiediamo di suo figlio, risponde: “Al mio bambino auguro il meglio, tutto l’amore del mondo, cercherò di dargli quello che io non ho mai avuto o che ho avuto fino a un certo punto della mia vita. Voglio che cresca e che stia bene, che possa studiare, non voglio che passi ciò che ho vissuto io. Ora che anche io sono un genitore, rivedendo come mi sono comportata con mio padre, le tante bugie che ho raccontato, non voglio che possa accadere la stessa cosa. Per questo voglio essere sincera con lui, anche sul mio passato, sicuramente qualcosa gli racconterò. Quando sarà più grande e ci sarà il momento giusto, gliene parlerò”.

Entro l’anno madre e figlio usciranno definitivamente dalla comunità. “Sono alla fine del percorso. Chi l’avrebbe mai detto che sarei riuscita ad arrivare fino a questo punto. Mi sarei data meno di zero quando ho cominciato, ma se hai forza di volontà e un motivo valido, ci riesci. Se sono gli altri a dirti di smettere non ne uscirai mai, devi volerlo tu per prima e devi avere una forte motivazione. In questo ultimo anno mi sono data molto da fare, per 5 mesi ho lavorato in un centro di volontariato. Ho cercato di rendermi subito autonoma e ho iniziato a inviare curriculum vitae. Mi hanno preso in un’azienda poco dopo e ho iniziato a lavorare come operaia. È stato il mio primo impiego, per me è una grande soddisfazione, è l’inizio che mi permetterà di diventare autonoma e di non dover dipendere economicamente da nessuno. Ho comunque dei sogni e degli obiettivi da raggiungere. Ci sono ancora tante cose da recuperare.  Ad esempio, vorrei fare dei corsi di trucco professionale o di tattoo designer. Non ho terminato gli studi ma vorrei riprendere in qualche modo, perché mi piaceva, soprattutto studiare le lingue straniere”.

L’ABISSO DELLE MAMME TOSSICODIPENDENTI

Sara, non è l’unica donna incinta che Claudia ha incontrato a Rogoredo durante il servizio di volontariato con il CISOM. “C’è stata una ragazza ucraina, tossicodipendente da anni, incinta del terzo figlio. Il primo l’ha abbandonato e credo viva in Germania con i genitori del padre; il secondo è nato due anni fa nel Bosco tra le siringhe, è stata arrestata e per un po’ non ne ho saputo nulla. L’ho rivista qualche mese fa, di nuovo incinta. L’ho rimproverata… Lei ovviamente dice che ha smesso ma ti accorgi del contrario solo osservando le mani, perché chi fuma l’eroina ha le dita nere. Anche lei, accompagnata dall’attuale fidanzato con cui condivide la stessa vita, dice che vuole tenere questo bambino, che è pronta a disintossicarsi, che il giorno dopo andrà al Sollievo, ma poi non si presenta. Una psichiatra del CISOM di Milano, che ha lavorato nelle carceri e ha avuto a che fare con tossicomani per diverso tempo, mi ha spiegato che nel caso di tossicodipendenti donne, il fatto di avere qualcosa dentro che cresce, che prende vita è percepito come l’unica cosa positiva di loro stesse. Non gli interessa del bambino in sé ma del loro corpo che in quel momento sta facendo qualcosa di buono, è come se si illudessero di far sbocciare un fiore su un terreno arido”

LA LOTTA DELLE MADRI CONTRO LA DROGA CHE INTRAPPOLA I PROPRI FIGLI

Se qualcuno mi chiedesse a cosa penso quando si parla di Festa della Mamma, il mio pensiero va alle madri i cui figli vivono in strada, condannate ad avere sensi di colpa e a vivere con un vuoto dentro che non può essere riempito”. A Rogoredo è frequente conoscere donne che hanno figli tossicodipendenti e ogni volta che Claudia e gli altri volontari CISOM escono in servizio, il cellulare squilla, la chiamano per avere informazioni: “Spiego loro che ci sono settimane in cui i loro figli vengono da noi, altre no perché magari hanno problemi con la Polizia ed è meglio non farsi notare. Cerco comunque di informarmi chiedendo agli altri ragazzi del Bosco, si conoscono tutti tra di loro”. Tra le tante mamme con cui Claudia è in contatto ce n’è una in particolare che sente da molto tempo e in una delle ultime telefonate è arrivata a dirle che ogni tanto spera che suo figlio non ci sia più, che sia morto. “È forte come pensiero ma la capisco perché, piuttosto che vederlo dormire in strada, bucarsi, sapere che non c’è più è meno angosciante”. Altre mamme, invece, non demordono, vengono a Rogoredo, stazionano per ore nella vana speranza di incontrare il figlio solo per dargli un cambio e qualcos’altro.

Dal 2019 a oggi i volontari CISOM sono riusciti a portare via dal Bosco di Rogoredo centinaia di persone e ad accompagnarle in strutture di assistenza e recupero: uomini, donne, molti ragazzi come Sara. Ogni mercoledì sera i volontari, tra cui psichiatri, psicologi, medici e infermieri, si ritrovano alla stazione di Rogoredo per distribuire cibo, vestiti puliti, coperte e sacchi a pelo nelle stagioni più fredde, prodotti per l’igiene personale e, cosa non meno importante, per dare calore umano a chi ha bisogno di conforto e attenzione. Ogni quindici giorni poi è presente sul posto l’Ambulatorio Medico Mobile del Gruppo di Milano (AMM), per fornire cure sanitarie e, in alcune occasioni, per fare anche piccoli interventi chirurgici, necessari per alleviare le sofferenze di tutti coloro che normalmente avrebbero il timore di recarsi in ospedale. “Conosciamo dei ragazzi che mangiano una sola volta a settimana, quando arriviamo noi. Da una parte dobbiamo attirarli a noi con cibo e indumenti, per poi poterli agganciare, ma dall’altra parte dobbiamo stare attenti a non dare troppo per evitare che stiano “troppo bene” nel Bosco, che abbiano meno voglia di cambiare vita. Vorremmo dare tutto, ma non possiamo dare troppo” conclude Claudia.


[1] SMI: Servizio Multidisciplinare Integrato, autorizzato dall’ASL di Milano e accreditato con la Regione Lombardia che si occupa di prevenzione, trattamento e riabilitazione di persone con problematiche di abuso e dipendenza da alcool, sostanze stupefacenti, farmaci e comportamenti compulsivi quali il gioco d’azzardo patologico (o ludopatia). In questa struttura i tossicodipendenti, in attesa di essere portati in comunità, ricevono le prime cure mediche e psichiatriche, iniziano a disintossicarsi, hanno un posto dove dormire, lavarsi e ricevere vestiti nuovi, visto che la maggior parte di loro dorme in strada.

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