Anticipazioni per la “Turandot” di Puccini del 19 agosto alle 21.20 su Rai 3: diretta da Michele Spotti per la regia di Antonio Zeffirelli dall’Arena di Verona – Il capolavoro di Giacomo Puccini, l’atmosfera unica dell’Arena di Verona e la partecipazione straordinaria di Luca Zingaretti che sottolinea alcuni momenti chiave dell’opera accompagnando i telespettatori dentro l’opera: lunedì 19 agosto alle 21.20 su Rai3 torna “La Grande Opera all’Arena di Verona” – prodotta da Rai Cultura – con Turandot, nella versione curata dal regista Franco Zeffirelli.
Protagonista Ekaterina Semenchuk, al debutto areniano nei panni della “principessa di gelo”, amata e sfidata dal principe ignoto interpretato dal tenore Yusif Eyvazov. Insieme a loro sono impegnati Mariangela Sicilia nella parte di Liù e Riccardo Fassi come Timur. I tre ministri imperiali Ping, Pang e Pong sono rispettivamente Youngjun Park, Matteo Macchioni e Riccardo Rados, il Mandarino è Hao Tian mentre l’imperatore Altoum è Carlo Bosi. Il palcoscenico ricrea una Cina “ai tempi delle favole” come da libretto, pullulante di vita e di folla, con i movimenti coreografici di Maria Grazia Garofoli, mimi, acrobati, danzatori, figuranti e le giovanissime voci bianche del coro A.d’A.Mus.
L’Orchestra di Fondazione Arena e il Coro, preparato da Roberto Gabbiani, sono diretti da Michele Spotti. Classe 1993, direttore dell’Opera di Marsiglia, il Maestro Spotti ha guidato per la prima volta i complessi artistici veronesi pochi mesi fa in occasione del prestigioso Concerto di Natale in Senato e, con l’ultimo capolavoro di Puccini, fa il suo atteso esordio in Arena. Il finale dell’opera è eseguito nel tradizionale completamento di Franco Alfano sugli appunti di Puccini sotto la supervisione di Arturo Toscanini. Turandot, opera inaugurale del 101° Festival, rappresenta l’omaggio dell’Arena a Puccini nel centenario della scomparsa.
La regia televisiva è di Fabrizio Guttuso Alaimo.
Turandot (AFI: /turanˈdɔt/[1][2]) è un’opera in 3 atti e 5 quadri, su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, lasciata incompiuta da Giacomo Puccini e successivamente completata da Franco Alfano.
La prima rappresentazione ebbe luogo nell’ambito della stagione lirica del Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, con Rosa Raisa, Francesco Dominici, Miguel Fleta, Maria Zamboni, Giacomo Rimini, Giuseppe Nessi e Aristide Baracchi sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!» (alla morte di Liù), ovvero dopo l’ultima pagina completata dall’autore, rivolgendosi al pubblico, secondo alcune testimonianze, con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.»[3] Le sere seguenti, l’opera fu messa in scena con il finale rivisto di Alfano, ma fu diretta da Ettore Panizza. Arturo Toscanini non diresse mai più l’opera.[4]
L’incompiutezza dell’opera è oggetto di discussione tra gli studiosi. C’è chi sostiene che Turandot rimase incompiuta non a causa dell’inesorabile progredire del male che affliggeva l’autore, bensì per l’incapacità, o piuttosto l’intima impossibilità da parte del Maestro di interpretare quel trionfo d’amore conclusivo, che pure l’aveva inizialmente acceso d’entusiasmo e spinto verso questo soggetto. Il nodo cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di risolvere, è costituito dalla trasformazione della principessa Turandot, algida e sanguinaria, in una donna innamorata.[5]
Il soggetto dell’opera ha origini antiche ancora tutte da scoprire, cui si è ispirato per i suoi Mille e un giorno François Pétis de la Croix (1653–1713)[6]. Noto in Italia soprattutto grazie alla omonima fiaba teatrale (1762) di Carlo Gozzi, già oggetto di importanti adattamenti musicali: dalle musiche di scena composte da Carl Maria von Weber nel 1809, all’opera di Ferruccio Busoni, rappresentata nel 1917 e preceduta da suite orchestrale (op. 41) eseguita per la prima volta nel 1906.[7]
Più esattamente, il libretto dell’opera di Puccini si basa, molto liberamente, sulla traduzione di Andrea Maffei dell’adattamento tedesco di Friedrich Schiller del lavoro di Gozzi. L’idea per l’opera venne al compositore in seguito a un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, avvenuto a Milano nel marzo 1920. Nell’agosto dello stesso anno, quando si trovava per un soggiorno termale a Bagni di Lucca, il compositore poté ascoltare, grazie al suo amico barone Fassini, che era stato per qualche tempo console italiano in Cina, un carillon con temi musicali proveniente da quel paese. Alcuni di questi temi sono presenti nella stesura definitiva della partitura.[8]
La genesi
Spartito del dramma lirico, stampato a Milano per i tipi di Giulio Ricordi & C. nel 1926.
Nel Natale del 1920 Puccini riceve la prima stesura in versi del libretto del primo atto. Nel gennaio del 1921 giunge a Puccini la versione definitiva del testo del primo atto, e nell’agosto dello stesso anno la partitura è completata. In settembre Puccini scrive: «Turandot dovrebbe essere in due atti, che ne dici? Non ti pare troppo, diluire dopo gli enigmi per giungere alla scena finale? Restringere avvenimenti, eliminarne altri, arrivare ad una scena finale dove l’amore esploda»[9]. Il vero ostacolo per il compositore fu, fin dall’inizio, la trasformazione del personaggio di Turandot, da principessa fredda e vendicativa a donna innamorata. Ancora l’autore scriveva: «Il duetto [tra Calaf e Turandot] per me dev’essere il clou – ma deve avere dentro a sé qualcosa di grande, di audace, di imprevisto e non lasciar le cose al punto del principio […] Potrei scrivere un libro su questo argomento»[10]. E ancora: «Il duetto! Il duetto! tutto il decisivo, il bello, il vivamente teatrale è lì! […] Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi»[10].
Puccini si lamentò spesso della lentezza con cui i due librettisti rispondevano alle sue richieste di revisioni del libretto, ma si può dubitare che questo sia il vero motivo per cui l’opera è rimasta incompiuta. Nel giugno 1922 il compositore confermò a Casa Ricordi che «Simoni e Adami mi hanno consegnato con mia completa soddisfazione il libretto di Turandot finito»[10]; eppure i dubbi non erano scomparsi e sei mesi dopo confessava ad Adami: «Di Turandot niente di buono […] Se io avessi avuto un soggettino come da tempo lo cercavo e lo cerco, a quest’ora sarei in scena. Ma quel mondo cinese! A Milano deciderò qualcosa, forse restituisco i soldi a Ricordi e mi libero».
I soldi non furono restituiti e nel dicembre del 1923 Puccini aveva completato tutta la partitura fino alla morte di Liù, cioè fino all’inizio del duetto cruciale. Di questo finale egli stese solo una versione in abbozzo discontinuo. Puccini morì a Bruxelles il 29 novembre 1924, lasciando le bozze del duetto finale così come le aveva scritte il dicembre precedente.
Trama
«Chi quel gong percuoterà apparire la vedrà bianca al pari della giada fredda come quella spada è la bella Turandot!» |
(Coro, atto I) |
L’azione si svolge a Pechino, «al tempo delle favole».
Atto I
Un mandarino annuncia pubblicamente il solito editto: Turandot, figlia dell’Imperatore, sposerà quel pretendente di sangue reale che abbia svelato tre indovinelli molto difficili da lei stessa proposti; colui però che non sappia risolverli dovrà essere decapitato. Il principe di Persia, l’ultimo dei tanti pretendenti sfortunati, ha fallito la prova e sarà giustiziato al sorger della luna. All’annuncio, tra la folla desiderosa di assistere all’esecuzione, sono presenti il vecchio Timur che, nella confusione, cade a terra, e la sua schiava fedele Liù, che chiede aiuto. Un giovane si affretta ad aiutare il vegliardo: è Calaf, che riconosce nell’anziano uomo suo padre, re tartaro spodestato e rimasto accecato nel corso della battaglia che lo ha privato del trono. I due si abbracciano commossi e il giovane Calaf prega il padre e la schiava Liù, molto devota, di non pronunciare il suo nome: ha paura, infatti, dei regnanti cinesi, i quali hanno usurpato il trono del padre. Nel frattempo il boia affila le lame preparandole per l’esecuzione, fissata per il momento in cui sorgerà la luna, mentre la folla si agita ulteriormente.
Ai primi chiarori lunari entra il corteo che accompagna la vittima. Alla vista del principe, la folla, prima eccitata, si commuove per la giovane età della vittima, invocandone la grazia. Turandot allora entra e, glaciale, ordina il silenzio al suo popolo, e con un gesto dà l’ordine al boia di giustiziare il principe.
Calaf, che prima l’aveva maledetta per la sua crudeltà, è ora impressionato dalla regale bellezza di Turandot, e decide di affrontare la sfida e risolvere i tre enigmi. Timur e Liù provano a dissuaderlo, ma lui si lancia verso il gong dell’atrio del palazzo imperiale. Tre figure lo fermano: sono Ping, Pong e Pang, tre ministri del regno; anche loro tentano di convincere Calaf a lasciar perdere, descrivendo l’insensatezza dell’azione che sta per compiere. Questi, però, quasi in una sorta di delirio, si libera di loro e suona tre volte il gong, invocando il nome di Turandot.
Atto II
È notte. Ping, Pong e Pang si lamentano di come, in qualità di ministri del regno, siano costretti ad assistere alle esecuzioni delle troppe sfortunate vittime di Turandot, mentre preferirebbero vivere tranquillamente nei loro possedimenti in campagna.
Sul piazzale della reggia intanto tutto è pronto per il rito dei tre enigmi. C’è una lunga scalinata in cima alla quale si trova il trono in oro e pietre preziose dell’imperatore. Da un lato ci sono i sapienti, i quali custodiscono le soluzioni degli enigmi, dall’altro ci sono il popolo, il Principe ignoto e i tre ministri. L’imperatore Altoum invita il principe ignoto, Calaf, a desistere, ma quest’ultimo rifiuta. Il mandarino fa dunque iniziare la prova, ripetendo l’editto imperiale, mentre entra in scena Turandot. La bella principessa spiega il motivo del suo comportamento: molti anni prima il suo regno era caduto nelle mani dei tartari e, in seguito a ciò, una sua antenata era finita nelle mani di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot aveva giurato che non si sarebbe mai lasciata possedere da un uomo: per questo aveva inventato questo rito degli enigmi, convinta che nessuno li avrebbe mai risolti. Calaf invece riesce a risolverli uno dopo l’altro: la principessa, disperata e incredula, si getta ai piedi del padre, supplicandolo di non consegnarla allo straniero. Ma per l’imperatore la parola data è sacra. Turandot si rivolge allora al Principe e lo ammonisce che in questo modo egli avrà solo una donna riluttante e piena d’odio. Calaf la scioglie allora dal giuramento proponendole a sua volta una sfida: se la principessa, prima dell’alba, riuscirà a scoprire il suo nome, egli le regalerà la sua vita. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona un’ultima volta, solenne, l’inno imperiale.
Atto III
È notte. In lontananza si sentono gli araldi che portano l’ordine della principessa: quella notte nessuno deve dormire a Pechino e il nome del principe ignoto deve essere scoperto a ogni costo, pena la morte. Calaf intanto è sveglio, convinto di vincere. Infatti è qui che intona la famosa aria Nessun dorma.
Giungono Ping, Pong e Pang, che offrono a Calaf qualsiasi cosa pur di conoscere il suo nome, ma il principe rifiuta. Nel frattempo, Liù e Timur vengono portati davanti ai tre ministri. Appare anche Turandot, che ordina loro di parlare. Liù, per difendere Timur, afferma di essere la sola a conoscere il nome del principe ignoto, ma dice anche che non svelerà mai questo nome. La donna subisce molte torture ma continua a tacere, riuscendo a stupire Turandot, che le chiede cosa le dia tanta forza per sopportare le torture, al che Liù risponde che è l’amore a darle questa forza.
Turandot è turbata da questa dichiarazione, ma torna ad essere la solita gelida principessa: ordina ai tre ministri di scoprire a tutti i costi il nome del principe ignoto. Liù, sapendo che non riuscirà a tenerlo nascosto ancora, strappa di sorpresa un pugnale a una guardia e si trafigge a morte, cadendo esanime ai piedi di uno sconvolto Calaf. Il vecchio Timur, essendo cieco, non comprende immediatamente quanto accaduto e, quando la verità gli viene infine cinicamente rivelata dal ministro Ping, il deposto sovrano abbraccia distrutto il corpo senza vita di Liù, che viene portato via seguito dalla folla in preghiera.
Turandot e Calaf restano soli. In un primo momento Calaf è adirato con la principessa, che accusa di aver provocato fin troppo dolore in nome del suo odio e di essere ormai incapace di provare sentimenti (Principessa di Morte), ma ben presto all’odio si sostituisce l’amore di cui Calaf è incapace di liberarsi. La principessa dapprima lo respinge, ma poi ammette di aver avuto paura di lui la prima volta che l’aveva visto e di essere ormai travolta dalla passione, che li porta infine a scambiarsi un bacio appassionato. Tuttavia ella è molto orgogliosa e supplica il principe di non volerla umiliare. Calaf le fa il dono della vita e le rivela il suo nome: Calaf, figlio di Timur. Turandot, saputo il nome, potrà perderlo, se vuole.
Il giorno dopo, davanti al palazzo reale, davanti al trono imperiale è riunita una grande folla. Squillano le trombe. Turandot dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero: «il suo nome è Amore».
Tra le grida di giubilo della folla la principessa Turandot, felice, si abbandona tra le braccia di Calaf e accetta di sposarlo.
La storia si conclude con il matrimonio di Turandot e Calaf, ormai felici e contenti.
Il finale “incompiuto”
In realtà il lavoro sulla Turandot da parte dello stesso autore non rimase effettivamente incompiuto. Certamente a questo episodio contribuì anche – e non poco – il fatto che Puccini stesso in quel periodo non godesse di buone condizioni di salute, tanto che sarebbe morto prematuramente poco tempo dopo per un tumore maligno alla gola. Puccini, dopo aver scritto l’ultimo coro funebre (dedicato alla morte di Liù), in cui raggiunse “il massimo splendore” della sua musica, non volle più continuare, ritenendo il lavoro già perfettamente concluso. Il lavoro di stesura di un vero e proprio finale alternativo iniziò praticamente poche settimane prima della morte, quando l’autore stava per essere ricoverato, ma non rimasero che abbozzi più o meno compiuti. Gli abbozzi sono sparsi su 23 fogli che il maestro portò con sé presso la clinica di Bruxelles in cui fu ricoverato nel tentativo di curare il male che lo affliggeva. Puccini non aveva indicato in modo esplicito nessun altro compositore per il completamento dell’opera. L’editore Ricordi decise allora, su pressione di Arturo Toscanini e di Antonio, il figlio di Giacomo, di affidare la composizione al napoletano Franco Alfano, allora Direttore del Conservatorio di Torino, che due anni prima si era distinto nella composizione di un’opera, La leggenda di Sakùntala, caratterizzata da una suggestiva ambientazione orientale.[11]
La composizione del finale procedette lentamente a causa sia della malattia agli occhi di cui Alfano soffriva, sia della richiesta da parte dell’editore Ricordi (sollecitato da Toscanini, che non ritenne all’altezza una prima versione consegnata) di rifare il lavoro. In un primo momento Alfano compose integralmente una propria versione del finale, incorporando nel miglior modo possibile i materiali rimasti negli abbozzi pucciniani. Questa è la vera e propria versione integrale del finale di Alfano, che oggi viene erroneamente considerata come “prima versione” ed eseguita piuttosto raramente. Nella nuova versione (comunemente eseguita), Alfano fu costretto ad attenersi più fedelmente agli schizzi e tagliò centodieci battute degli appunti pucciniani e forse anche parte dei propri. L’effetto di questi interventi, che l’autore eseguì molto controvoglia, è avvertibile nella condotta armonica e drammatica, piuttosto vuota e a tratti irregolare. Inoltre Alfano trascurò alcuni schizzi di Puccini e richiese la partitura d’orchestra del resto dell’opera solo pochi giorni prima di consegnare il lavoro.[12]
A partire dalla scoperta della prima versione di Alfano, sono state studiate e proposte varie soluzioni alternative. Una studiosa statunitense, Janet Maguire, si è cimentata nello studio degli abbozzi per dodici anni (1976-1988) per comporre una nuova versione del finale. La sua versione tuttavia non è stata mai eseguita. Si dovette attendere il 2001 per ascoltare un nuovo finale di Turandot, commissionato a Luciano Berio dal Festival de Musica de Gran Canaria, basato anch’esso sugli abbozzi lasciati da Puccini e ufficialmente riconosciuto dalla Ricordi.
Il punto più controverso del materiale lasciato da Puccini è costituito dall’episodio del bacio. È il momento clou dell’intera opera: la trasformazione di Turandot da principessa di gelo a donna innamorata. Se nell’abbozzo pucciniano le prime 56 battute del finale sono già a uno stadio di elaborazione avanzato, questo episodio appare forse abbozzato in un solo foglio, secondo l’ipotesi di Harold Powers e William Ashbrook.[13]
Se Berio ha imbastito un esteso episodio sinfonico a partire da questa pagina, Alfano si limitò a comporre sedici nuove battute, ridotte nella versione definitiva a un solo accordo seguito da pochi colpi di timpano.
In un precedente schizzo di Puccini, al medesimo episodio è abbinato un diverso materiale tematico. Sul foglio 11 recto egli aveva infatti scritto le ultime due battute, seguite da una battuta con un accenno del tema per il bacio, per poi cancellarle e riscriverle sull’altro lato del foglio. Il tema in questione è lo stesso che poche battute prima Turandot canta sulle parole «No, mai nessun m’avrà! Dell’ava lo strazio non si rinnoverà!»: ciò sembrerebbe attestare come l’idea del compositore lucchese potesse essere radicalmente diversa da quella dei suoi più giovani colleghi. Un bacio su questo tema accentrerebbe infatti l’attenzione sul cedimento della principessa, piuttosto che sul suo orgoglio ferito, come nella versione di Alfano, o sulla trasformazione più interiorizzata della versione di Berio.