A cinquant’anni dalla scomparsa di Vittorio De Sica, Rai Cultura ricorda uno dei massini protagonisti del cinema italiano con una programmazione dedicata, in onda mercoledì 13 novembre su Rai Storia. Si inizia alle 8.30 con l’almanacco de “Il giorno e la storia” (in replica alle 11.45, alle 14 e alle 20). Nato nel 1901, Vittorio De Sica esordisce dietro la macchina da presa nel 1939 con “Rose scarlatte”. Ma il suo nome è legato in maniera indissolubile alla grande stagione del Neorealismo. Con “Sciuscià” e “Ladri di biciclette” vince l’Oscar per il miglior film straniero. Dirige Sophia Loren in “La ciociara”, “Ieri, oggi e domani” e “Matrimonio all’italiana”. Con quest’ultimo, è ancora Oscar.
Alle 13.00 è la volta di Vittorio De Sica a “Canzonissima”, lo spettacolo televisivo Rai abbinato alla Lotteria Italia nel quale è stato più volte ospite. In una puntata del novembre 1970 e nella finalissima del 1971/72 è ospite di Raffaella Carrà e Corrado, che prova a dirigere con risultati clamorosi, e poi dà prova di recitazione decantando la poesia di Salvatore di Giacomo “Lassame fa a Dio”, e ritorna a Canzonissima con il figlio Christian, ospiti di Pippo Baudo e Loretta Goggi nel 1972.
Alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia, poi, Paolo Mieli e lo storico Ermanno Taviani rileggono la figura di De Sica in “Passato e Presente”, tratteggiando il ritratto di un artista completo che ha lasciato una traccia indelebile nel cinema italiano e mondiale. E se la stagione più conosciuta è quella breve e intensissima del neorealismo, Vittorio De Sica ha avuto la capacità di cambiare stile, rinnovandosi completamente, tanto da far dire a Roberto Rossellini che De Sica è forse l’unico regista italiano a possedere così tanti registri espressivi. Una carriera inimitabile segnata da quattro premi Oscar e numerosissimi premi nazionali e internazionali.
A seguire – alle 13.30 su Rai Storia – in “Stasera: Gina Lollobrigida”, programma con la regia di Antonello Falqui, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida si cimentano in uno sketch nel quale replicano la celebre scena dell’episodio “il processo di Frine” di “Altri Tempi” (1952) di Alessandro Blasetti nel quale De Sica è un distratto avvocato d’ufficio di una procace cittadina, interpretata da Gina Lollobrigida. Nella versione televisiva del 1969, si ironizza sull’eccessiva sensualità dell’attrice per gli standard della TV dell’epoca, e l’avvocato dell’accusa è interpretato da Riccardo Garrone.
Alle 17.30 è in scena “Vittorio De Sica: autoritratto”, nel quale Vittorio De Sica, dal teatro Eliseo, racconta la sua vita di attore e regista e incontra alcune figure importanti per la sua carriera come Emma Gramatica, Sergio Tofano e Cesare Zavattini, in un documentario per la TV firmato da Giulio Macchi, pioniere della divulgazione scientifica in Rai con “Orizzonti della scienza e della tecnica”.
Biografia di Vittorio De Sica-Regista e attore teatrale e cinematografico, nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) il 13 novembre 1974. Grande autore del cinema italiano fu anche interprete di spiccata personalità e presenza scenica. Dotato di una capacità istintiva nel cogliere il lato amabile e ironico, come quello malinconico e a volte tragico, della realtà quotidiana, D. S. possedette la rara capacità di sdoppiarsi dapprima tra il teatro e il cinema, e poi tra una carriera di attore, versatile e adattabile, e di regista cinematografico; nei suoi film emerge una sensibilità straordinaria nel saper trasferire l’osservazione minuta della realtà nelle maglie di racconti strutturati su un sentimento di forte solidarietà umana. Apparso come attore in quasi duecento film, seppe realizzare, anche in quelli di minore qualità, una perfetta combinazione tra eleganza gestuale e vocale e un suo personale tratto istrionico. Valorizzato da Mario Camerini, a partire da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), nella cosiddetta pentalogia piccolo-borghese, da questo regista D. S. acquisì i fondamenti dell’arte e della tecnica cinematografica che seppe fare suoi raffinandoli con profonda sensibilità e spessore umano. Si inserì autorevolmente nella storia del cinema con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l’Oscar come migliori film stranieri rispettivamente nel 1948 e nel 1950, rivelando con lucida partecipazione l’amara realtà postbellica di un Paese materialmente e moralmente dilaniato. Grazie anche al contributo determinante dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che lavorò con lui in quasi tutti i suoi film, D. S. raggiunse la massima maturità artistica ed espressiva negli anni Quaranta, quando contribuì in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica, il Neorealismo.
Figlio di un assicuratore napoletano, dopo un’infanzia trascorsa a Napoli D. S. si diplomò in ragioneria, ma già nel 1917 aveva ricoperto il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Con l’attrice-regista T. Pavlova, ricca dell’esperienza della scena russa, D. S. tra il 1924 e il 1926 passò al professionismo teatrale, recitando poi da attore giovane nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano (1927-1929). In questo periodo si cimentò saltuariamente anche sullo schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Deviò quindi verso il teatro popolare, entrando nel 1931 nella compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, in cui riportò grande successo anche per le canzoni interpretate; fu in quel periodo che D. S. definì il suo profilo di attore brillante e di fine dicitore e chansonnier. Dal 1932 intraprese in maniera costante anche la carriera d’attore cinematografico, interpretando da protagonista due film che confermarono la sua versatilità. In primo luogo Due cuori felici, di Baldassarre Negroni, film brillante con couplets cantati e una struttura da operetta, che non si allontanava di molto dagli spettacoli di rivista. Ma fu in Gli uomini, che mascalzoni… di Camerini, sceneggiato da quest’ultimo con Aldo De Benedetti e Mario Soldati, in cui D. S. canta la celebre canzone di C.A. Bixio Parlami d’amore Mariù, che espresse al meglio il suo stile, qui pienamente valorizzato, e rivelò il suo talento recitativo, trovando il giusto equilibrio nel disegnare un personaggio (l’autista Bruno) dall’animo semplice e il comportamento scanzonato, sullo sfondo di una Milano già industrializzata. Il film venne presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolidando il successo dell’attore. Dopo Un cattivo soggetto (1933), per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, e alcuni film di scarso rilievo, D. S. diede vita alla compagnia Tofano-Rissone-De Sica. In questo periodo avvenne anche l’incontro con due autori italiani, Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi, che segnò l’inizio di un felice e lungo sodalizio artistico. Nel 1935 fu di nuovo insieme a Camerini in Darò un milione, cui aveva collaborato, per il soggetto e la sceneggiatura, anche Zavattini. D. S. vi interpreta Gold, un milionario che, annoiato della sua vita abituale, decide di vivere una giornata diversa travestendosi da poveraccio ed entrando in contatto con un mondo molto lontano dal suo. Nella seconda metà degli anni Trenta continuò a intercalare cinema e teatro. Ma due film ancora di Camerini precisarono la sua figura di attore dal tratto amabilmente ironico: Il signor Max (1937) e Grandi magazzini (1939). In Il signor Max D. S. impersona il giornalaio Gianni, aspirante a un ruolo mondano, che durante un viaggio viene scambiato per un conte da un gruppo di nobili, e di conseguenza si trova a vivere due vite parallele. A questo film, da lui reinterpretato venti anni dopo nell’adattamento di Giorgio Bianchi (1957; Il conte Max) con Alberto Sordi nel suo ruolo del 1937, è stato dedicato un altro remake (Il conte Max, 1991) realizzato dal figlio Christian (n. Roma 1951), anch’egli regista e attore. In Grandi magazzini D. S. riveste il ruolo di un personaggio molto vicino al protagonista di Gli uomini, che mascalzoni…: ancora un autista, anch’egli di nome Bruno, che ha premura di difendere la povera commessa di un grande magazzino, ingiustamente accusata di furto. In questo stesso anno avvenne il primo incontro diretto tra D. S. e Zavattini, durante il quale il regista acquistò dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui, dopo diversi rimaneggiamenti dello stesso Zavattini, sarebbe nata la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951). Non soddisfatto dei traguardi raggiunti e di essere definito lo ‘Chevalier italiano’, D. S. fu quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, nel 1940, gli si aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica. L’esordio avvenne senza troppo clamore, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, portato sulle scene dalla formazione De Sica-Rissone-Melnati al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Il film, dal titolo Rose scarlatte, ebbe come coregista Giuseppe Amato; D. S. si limitò a dirigere con dedizione gli attori, tralasciando ancora i movimenti di macchina e la fotografia. A Maddalena zero in condotta (1940), che molto deve al brio dello stile cameriniano, seguì nel 1941 Teresa Venerdì, alla cui sceneggiatura collaborò, non accreditato, anche Zavattini. Il film, seppure ancora molto vicino allo stile di Camerini, evidenzia cambiamenti che si rintracciano nella particolare cura del montaggio, nell’elaborare un’atmosfera brillante non priva di riflessioni a sfondo sociale e in una propensione a evadere dalle convenzioni del cinema italiano di quel periodo. Durante la guerra D. S. riprese il teatro fino al 1942, nella nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, portando sulle scene prevalentemente drammi di U. Betti (I nostri sogni, Il paese delle vacanze) e testi pirandelliani (Ma non è una cosa seria, Liolà). Dopo Un garibaldino al convento (1942), una divertita rievocazione storica, D. S. diresse I bambini ci guardano (1944) che segnò il passaggio deciso all’osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale. Il film, tratto dal romanzo Pricò di C.G. Viola e alla cui sceneggiatura Zavattini partecipò per la prima volta ufficialmente, rappresenta un’anticipazione di quella poetica che di lì a poco D. S. avrebbe progressivamente sviluppato e ampliato. Nel dramma interiore e nello sguardo del piccolo Pricò si legge la crudeltà e la durezza di quello stesso mondo piccolo-borghese che fino ad allora il regista si era limitato solo a rappresentare in maniera frivola e superficia-le. D. S., così, cambiò radicalmente e definitivamente la prospettiva del proprio cinema, precorrendo Sciuscià nello studio della condizione del bambino, vittima dell’egoismo e dell’incomprensione degli adulti. Il suo stile si fece più essenziale rintracciando negli esterni, nelle strade, nelle piazze, nel paesaggio urbano, una verità lontana dalle convenzioni dei teatri di posa. Durante uno dei suoi ritorni teatrali diresse la compagnia Isa Miranda, di cui (1944) va ricordata la messinscena di Tovarich di J. Deval; recitò quindi (1945), diretto da Alessandro Blasetti, nel dramma Il tempo e la famiglia Conway di J.B. Priestley. Nel 1946 formò la compagnia Effe De Sica-Gioi-Besozzi, l’ultima di cui fu capocomico. Della sua attività teatrale di quegli anni va ricordata soprattutto la partecipazione, proprio nel 1946, a Il matrimonio di Figaro di P.-A. de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti. Mentre, al cinema, offrì interpretazioni misurate, talvolta drammatiche, in tre film: il primo di Gennaro Righelli, Abbasso la ricchezza! (1946), accanto ad Anna Magnani; il secondo, Natale al campo 119 (1947) di Pietro Francisci, dove è un nobile napoletano; il terzo, Cuore (1948) di Duilio Coletti, che gli valse il Nastro d’argento come miglior attore per l’intensa interpretazione del maestro Perboni. In La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, l’allontanamento del regista dai canoni precedenti appare irreversibile. Girato, con un’avventurosa lavorazione, nel periodo dell’occupazione tedesca a Roma, il film segue, con una minuzia di osservazione che valorizza espressivamente il dato patetico, le storie di un gruppo di malati in viaggio verso il santuario di Loreto per chiedere il miracolo della guarigione, che però non avverrà. Ma fu con Sciuscià che D. S. consegnò alla storia del cinema un capolavoro del Neorealismo, ispirandosi alla storia di due giovanissimi lustrascarpe da lui realmente incontrati. Il film, sceneggiato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei, alterna la crudeltà delle situazioni a squarci e fughe nel sogno, e segue la vita dei due ragazzi (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) fino al drammatico tentativo di fuga dal carcere minorile, che conduce alla morte di uno dei due. Con semplicità e sotto tono D. S. svela una realtà dilaniata dalla guerra, utilizzando il senso tragico dell’azione per un atto d’accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile. A partire da questo film e nella sua fase neorealista, D. S. adottò la pratica di ricorrere a interpreti presi dalla strada, dimostrando un’attitudine particolare nel renderli aderenti alla resa di verità del film. Nel 1948 uscì la sua opera più famosa e più premiata, Ladri di biciclette, dal romanzo di L. Bartolini, sceneggiata ancora una volta da Zavattini (con Oreste Biancoli, Suso Cecchi d’Amico, A. Franci, G. Gherardi, Gerardo Guerrieri) e interpretata da attori non professionisti. È un racconto immerso nella realtà delle strade e dei quartieri della Roma segnata dalla guerra, in cui campeggia la disperazione di un disoccupato al quale, trovato finalmente un posto di attacchino, rubano la bicicletta, strumento essenziale per il lavoro. Dall’affannoso deambulare del protagonista (Lamberto Maggiorani) accompagnato dal figlioletto (Enzo Stajola), spaurito e partecipe del dolore del padre, dalla ostile indifferenza e dalla desolazione che li circondano emerge il quadro di una condizione umana e sociale filmato con accorta pietas. Il film riscosse un enorme successo in tutto il mondo. Con Miracolo a Milano, premiato nel 1951 con la Palma d’oro al Festival di Cannes, D. S. non ottenne invece il successo commerciale sperato. Con la sceneggiatura che Zavattini aveva ricavato dal suo romanzo Totò il buono (rimaneggiamento del suo vecchio soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo), D. S. modellò la sua poesia del quotidiano sull’affettuosa descrizione delle miserie di una baraccopoli, mediante uno stile trasognato e funambolico. L’anno successivo, con Umberto D. il regista pervenne a un’asciuttezza livida e rigorosa, a uno stile scarno, ma accorato che penetra nelle pieghe della solitudine della desolata e umiliata vecchiaia del protagonista, un modesto pensionato (Carlo Battisti). Queste prove restano le più alte della sua opera registica, anche se per le polemiche sullo ‘sciorinamento dei panni sporchi’ di un’Italia piegata dalla guerra, D. S. fu osteggiato dagli ambienti politici di una certa Italia benpensante. Nel frattempo continuava le sue interpretazioni, disegnando caratteri e ruoli in cui il mestiere consumato si mescolava a dosi di garbata ironia. Lasciarono una traccia durevole, fra gli altri: Buongiorno, elefante! (1952) di Gianni Franciolini, in cui impersona il maestro Garetti, imbarazzato dall’ingombrante regalo di un elefante; di Blasetti, nel 1952, Altri tempi (Zibaldone n. 1), in cui è un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine (Gina Lollobrigida), e, nel 1954, Tempi nostri (Zibaldone n. 2), dove rappresenta la crepuscolare figura di un conte decaduto costretto a lavorare come comparsa cinematografica. Il ritorno alla regia avvenne con Stazione Termini (1953), irrisolta coproduzione con gli Stati Uniti, incerta tra sentimentalismo e ambizioni spettacolari.Con L’oro di Napoli (1954), dai racconti di G. Marotta, soprattutto negli episodi Il funeralino e I giocatori, D. S. raggiunse un notevole risultato espressivo grazie alla sua tipica sensibilità nel racconto dell’infanzia e mediante il ritratto icastico delle miserie e dell’umanità dei napoletani. Dopo aver interpretato il galante maresciallo in un classico del neorealismo rosa che avrà seguiti e imitazioni, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, nel 1956 D. S. ritornò alla regia con Il tetto, opera dotata di una certa sottigliezza descrittiva, sul problema della casa e della coabitazione. Con La ciociara (1960), tratto dal romanzo di A. Moravia, realizzò un film che possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra (interpretazione che valse un Oscar a Sophia Loren), e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Da attore D. S. aveva ricoperto nel 1959 la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, diretto da Roberto Rossellini in Il generale Della Rovere, in cui è il doppiogiochista Giovanni Bertone prima povero imbroglione, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla volontà di tener fede, paradossalmente sino alla morte, al ruolo interpretato. Nella regia di Il giudizio universale (1961) D. S. seppe incastonare in un surreale mosaico ambientato a Napoli una coralità che riprendeva la sua vena descrittiva migliore. I film successivi rientrano in schemi più convenzionali, quelli della commedia sentimentale o della satira sociale (Il boom, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964, da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), ma alcuni contengono icastiche notazioni di costume, come La riffa, episodio di Boccaccio ’70 (1962; film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli) o Ieri oggi domani (1963, Oscar per il miglior film straniero nel 1965) che consacrò il sodalizio di D. S. con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, e in cui l’episodio di Adelina, dovuto al soggetto di E. De Filippo, è un sapido apologo sull’arte di arrangiarsi, o come Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), che si regge su una delicatezza di tocco che tratteggia bene le atmosfere psicologiche.
Nel suo ultimo periodo registico D. S. si piegò per lo più alle ragioni industriali, anche con coproduzioni interpretate da famosi attori stranieri, da Peter Sellers a Shirley MacLaine (Caccia alla volpe, 1966; Sette volte donna, 1967; Amanti, 1968; I girasoli, 1970; Lo chiameremo Andrea, 1972 furono melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari). Accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice, e cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due regie furono rilevanti. In primo luogo quella di Il giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di G. Bassani (1970, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1971; Oscar per il miglior film straniero nel 1972), per il quale il figlio Manuel (n. Roma 1949) compose la colonna sonora, e in cui è evidente tutta l’abilità di D. S. nella direzione degli attori e nel dare colore e psicologia ad ambienti sociali, sentimenti umani, dissidi sentimentali. L’altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un’operaia calabrese, divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. In essa D. S. accentuò una vena intimista e ritrovò l’afflato, il concreto senso della solidarietà, il racconto umano delle cose, propri dei suoi primi capolavori. Nel 1967 aveva ottenuto la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone (da cui aveva avuto la figlia Emi) e sposare l’attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. Il viaggio (1974), ultimo film diretto da D. S., ancora interpretato da Sophia Loren, è un racconto, di derivazione pirandelliana, dove il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, suggella, quasi come un presagio, la fine dell’itinerario artistico e umano del regista.
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