martedì, Novembre 18, 2025
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L’ombra del potere: Trump, il Venezuela e il rischio di un’escalation

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L’ombra del potere: Trump, il Venezuela e il rischio di un’escalation

«La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi.» — Carl von Clausewitz

«L’arte suprema della guerra è sottomettere l’avversario senza combattere.» — Sun Tzu

Negli ultimi giorni si è acceso un confronto geopolitico che merita attenzione approfondita, perché combina ambizioni strategiche, pressioni regionali e il rischio concreto di una escalation militare tra gli Stati Uniti e il Venezuela. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha messo in atto un imponente spiegamento di forze nei Caraibi — segnale che un intervento contro il Venezuela non è escluso — pur negando ufficialmente la volontà di attacchi all’interno del territorio venezuelano. Il governo venezuelano, guidato da Nicolás Maduro, a sua volta ha reagito mobilitando le sue forze armate e lanciando un messaggio forte di difesa della sovranità nazionale.

Il fatto che un intervento non sia ancora deciso non significa che la guerra sia esclusa. Come ci suggeriscono i due maestri della strategia, von Clausewitz e Sun Tzu, il ricorso alla forza è sempre l’ultima ratio — ma non per questo meno reale.

In primo luogo, va sottolineato l’ampliamento della presenza militare statunitense: portaerei, unità navali, sommergibili, aerei da ricognizione e asset di intelligence sono stati posizionati nei pressi delle coste venezuelane e nei Caraibi. Questo tipo di mobilitazione non può essere letto soltanto come deterrenza: assume la forma di un’opzione militare pronta all’uso. Allo stesso tempo, Trump ha dichiarato che non sta considerando attacchi diretti in Venezuela — ma è proprio questa contraddizione tra dichiarazione pubblica e operatività reale che accende la tensione. Quando il potenziale d’azione è reale e riconoscibile, la semplice minaccia diventa già uno strumento di pressione.

Sul versante venezuelano, Maduro ha reagito denunciando la minaccia come una prova di aggressione esterna: ha mobilitato le Forze Armate, le milizie civili, e fatto leva su una narrativa nazionale di resistenza contro l’imperialismo. Questo risponde a una logica ben consolidata: in presenza di una minaccia esterna, un governo indebolito può trovare nuovo slancio politico. In questo senso, la tensione serve a consolidare consenso interno e a giustificare misure straordinarie.

Il piano è dunque duplice: da una parte la pressione statunitense, dall’altra la risposta venezuelana. Ma la partita è più ampia: coinvolge il diritto internazionale, la politica interna degli Stati Uniti, le reazioni di governi latinoamericani e l’impatto umano sulla popolazione venezuelana e oltre.

Dal punto di vista della legittimità e del diritto internazionale, ci troviamo in una zona d’ombra. Le operazioni sotto copertura — la partecipazione della CIA e i raid “mirati” — sollevano interrogativi circa il mandato costituzionale negli Stati Uniti e la compatibilità con le norme che regolano l’intervento in un altro Paese sovrano. La dottrina secondo cui l’intervento può essere giustificato solo in casi strettamente definiti (ad esempio per proteggere civili o su invito legittimo) trova dunque una sfida pratica. In particolare, la realtà di preparazione militare ma nessuna dichiarazione formale spinge verso un modello in cui l’azione militare resta “sotto soglia”, ma non per questo meno pericolosa.

La strategia rilevante, come ci insegna Sun Tzu, è che il vero trionfo non risiede nella distruzione totale, bensì nel condizionamento dell’avversario senza combattere. L’obiettivo non sembra in questo momento una guerra aperta, ma la dimostrazione di forza sufficiente a piegare la volontà dell’altro. In questo quadro, la presenza della potenza militare non è solo deterrenza: è messaggio strategico.

Da parte sua, la retorica venezuelana alimenta l’idea che l’intervento americano sia imminente — e con essa giustifica misure straordinarie sul piano interno: mobilitazione militare, restrizioni delle libertà, propaganda nazionalista. Questo crea un circolo pericoloso: la minaccia esterna rafforza il consolidamento interno, ma aumenta anche la possibilità di provocazioni accidentali.

Sul piano interno degli Stati Uniti, il punto di crisi è la riflessione sul potere esecutivo e sul controllo del Congresso. Operazioni militari clandestine, mandate non dichiarate e asset mobilitati al di fuori del dibattito pubblico ampliano il potere presidenziale in materia militare. Questo genera tensioni politiche, ma anche un serio rischio di errore operativo, in una forma di guerra «latente» ma potenzialmente scoppiabile. Come avvertiva von Clausewitz, la guerra può essere uno strumento politico — ma quando lo strumento scatta, il controllo si allenta.

La dimensione umano-sociale non è affatto secondaria. La popolazione venezuelana è già provata da una crisi economica gravissima, con inflazione, carenze alimentari, migrazioni. Il rischio è che l’apertura di un nuovo fronte militare peggiori ulteriormente quelle condizioni: bombardamenti, interruzione delle forniture, fuga di civili. La destabilizzazione si ripercuoterebbe anche sugli Stati vicini: Colombia, Guyana, Trinidad & Tobago, e sull’intera regione caraibica. Il nuovo esodo venezuelano potrebbe essere assai più consistente di quelli già avvenuti, rendendo l’emergenza umanitaria inesauribile.

Quali gli scenari possibili? Il più favorevole è la de-escalation: gli Stati Uniti mantengono la pressione – militare e diplomatica – ma scelgono la via delle sanzioni, del dialogo e della mediazione. In questo caso, l’impegno navale verrebbe gradualmente ridotto e si cercherebbe un accordo multilaterale con nazioni latinoamericane per isolare il Venezuela politicamente. Il secondo scenario è la tensione prolungata: attività clandestine, raid limitati, escalation controllata che resta sotto la soglia della guerra aperta. In questo caso, entrambe le parti restano in uno stato di conflitto latente, con il rischio di incidenti, escalation imprevista, oppure un logoramento politico continuo. Il terzo scenario — quello più grave — è un’azione militare su vasta scala, in cui verrebbero impiegate forze terrestri statunitensi in Venezuela, ipotesi che comporterebbe una catastrofe regionale: caduta del governo di Caracas, instabilità totale, milioni di rifugiati e un vuoto geopolitico nella regione.

In quest’ottica la saggezza strategica è fondamentale. Von Clausewitz ci ricorda che la guerra è la continuazione della politica: significa che la decisione di intervenire comporta una scelta politica prima che militare. Sun Tzu, d’altra parte, ci ammonisce che la suprema arte della guerra è vincere senza combattere, e che il leader saggio evita l’azione fino a quando non ha piena conoscenza di sé stesso e dell’avversario. In questo caso, entrambi gli insegnamenti convergono su un punto cruciale: la prudenza è l’essenza della strategia.

In conclusione, il confronto tra Washington e Caracas non è solo una minaccia militare: è una prova della capacità delle istituzioni di gestire la forza, della regione di gestire la tensione e dei popoli di non essere travolti. In un mondo sempre più interdipendente, la logica militare non può essere l’ultima risposta. Come ci ricordano i due strateghi, la più grande vittoria è quella che non richiede spargimento di sangue, e l’intervento dell’escalation può essere prevenuto — se solo la politica repensi il suo rapporto con la forza.

Carlo Di Stanislao

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