Orazione funebre per Pier Paolo Pasolini
Il Sud, la luce e l’ombra d’un’Italia che non c’è più
Signore e Signori,
oggi non piangiamo soltanto un uomo.
Piangiamo una voce.
Una voce che ha amato troppo, che ha ferito troppo, che ha detto la verità quando il silenzio sarebbe stato più comodo.
Una voce “dolcina”, fragile come la pietà, tagliente come la colpa.
Una voce che ancora ci attraversa — anche adesso — come vento tra le rovine del nostro presente.
Pasolini è morto tante volte, e mai davvero.
È morto nelle borgate che ha filmato, nei ragazzi che non sono mai diventati adulti, nei dialetti che non abbiamo più voluto ascoltare.
Ma ogni volta è risorto, nei suoi versi, nei suoi sguardi, nelle sue bestemmie d’amore.
Perché il suo Vangelo era la fame, la sua liturgia il corpo, la sua fede l’uomo — fragile, perduto, innocente.
E il suo Sud?
Il Sud di Pasolini non è una latitudine, ma una ferita.
È il ventre dell’Italia, il suo dolore più antico.
È la parte di noi che continua a credere nella purezza, nella terra, nel pane diviso a mani nude.
Lui, che veniva dal Friuli, trovò nel Sud la sua infanzia ritrovata: la madre arcaica, la povertà come forma di grazia.
Nel volto di Gennarino vide l’ultimo sguardo limpido di un Paese che stava per tradire sé stesso.
Nel grido di Accattone riconobbe la preghiera di un popolo che non sapeva più pregare.
E nei sassi di Matera trovò il volto di Cristo, contadino e affamato come i suoi fratelli.
Pasolini non fu mai solo un intellettuale.
Fu un martire laico, un profeta di periferia, un uomo che non accettò l’oblio.
Camminò per le strade del nostro tempo come un Cristo senza chiesa, come un poeta senza patria, portando sulle spalle la croce di un’Italia che si stava dimenticando dei poveri, delle lucciole, dei sogni.
E quando gridò che “il vero fascismo è quello del consumismo”, pochi lo ascoltarono.
Ma oggi sappiamo che aveva ragione.
Oggi, nelle nostre città senza dialetto, nei volti spenti illuminati solo da schermi, comprendiamo che la sua profezia era un avvertimento e una preghiera insieme.
Non c’è retorica nella sua morte.
Solo un corpo steso sulla sabbia, un poeta che ha smesso di lottare e un’Italia che non si è accorta di aver perso il suo ultimo santo.
Ma lui ci parla ancora.
Ci parla attraverso i suoi Meridiani, che non sono libri, ma reliquie.
Ci parla ogni volta che un ragazzo povero sogna in un vicolo, ogni volta che una madre chiama suo figlio con voce stanca, ogni volta che qualcuno sceglie di dire la verità sapendo che gli costerà cara.
Pasolini non chiede vendetta.
Chiede memoria.
Chiede di non lasciarlo morire nelle scuole senz’anima, nelle televisioni senza poesia.
Chiede che il Sud — il suo Sud, quello dell’anima, della fame e della grazia — continui a respirare in noi.
E allora, fratelli, sorelle, amici, studenti, lettori,
non portiamogli fiori, ma parole.
Non recitiamo preghiere, ma versi.
Non piangiamo per lui, ma con lui.
Perché finché avremo il coraggio di dire ciò che non si può dire,
finché un ragazzo chiamerà “madre” la terra,
finché ci saranno ombre in cui cercare luce,
Pier Paolo Pasolini sarà vivo.
E da qualche parte, tra i campi del Sud e la notte di Ostia,
una voce dolce, quasi femminea, continuerà a sussurrare:
“Non piangetemi. Scrivete.”
Carlo Di Stanislao
Foto: https://en.wikipedia.org/wiki/Pier_Paolo_Pasolini#/media/File:PierPaoloPasolini.jpg
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