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Quarant’anni dall’assassinio di Walter Tobagi: il ricordo

Walter Tobagi venne ucciso a Milano in via Salaino, alle ore 11 del 28 maggio 1980, con cinque colpi di pistola esplosi da un “commando” di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo. Di questi Marco Barbone (gli sparò il colpo letale) e Mario Marano furono quelli che effettuarono la barbarica esecuzione di Tobagi, ma parteciparono anche Francesco Giordano, Daniele Laus, Manfredi De Stefano e Morando Morandini. Buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese.

Due membri del commando in particolare appartengono all’ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico Morando Morandini del quotidiano Il Giorno.

Le indagini di Carabinieri e Magistratura furono assai sinergiche portando non solo all’arresto di Marco Barbone il 25 settembre del 1980 ma ottennero l’immediata collaborazione con gli inquirenti e grazie alle sue rivelazioni l’intera Brigata XXVIII marzo fu smantellata e furono incarcerati più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone era entrato in contatto durante la sua militanza terroristica frutto di ben 102 udienze di quello che fu un maxi-processo all’area sovversiva di sinistra (dal 1º marzo 1983 e terminarono 28 novembre dello stesso anno).

La sentenza suscitò molte polemiche poiché il giudice Cusumano, interpretando la legge sui pentiti in modo difforme rispetto al Tribunale di Roma (dove furono comminate comunque pene a oltre vent’anni di carcere ai terroristi pentiti delle Unità comuniste combattenti), concesse a Marco Barbone, Mario Ferrandi, Umberto Mazzola, Paolo Morandini, Pio Pugliese e Rocco Ricciardi «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa», mentre agli altri membri della XXVIII marzo, De Stefano, Giordano e Laus, furono inflitti trent’anni di carcere.

Le indagini di allora fecero molto eco fra i mass media e la stampa soprattutto perché non fu chiarito il ruolo svolto dalla fidanzata di Marco Barbone, Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese, figlia dell’affarista Gianni e della preside della Scuola Ebraica Paola Sereni. Nel 1978, cioè ben due anni prima dell’omicidio, Caterina Rosenzweig aveva lungamente pedinato Tobagi, che era anche suo docente di Storia moderna all’Università Statale di Milano.

Anche se nel settembre 1980 viene arrestata insieme con gli altri, Caterina verrà assolta per insufficienza di prove, nonostante nel corso del processo venga accertato che il gruppo di terroristi si riuniva a casa sua in via Solferino, a poca distanza dagli uffici dove lavorava Tobagi. Dopo il processo si trasferirà in Brasile, nazione in cui già aveva vissuto in quanto sede degli affari del padre, fino a far perdere le proprie tracce. Discussa fu la scelta da parte della magistratura di imbastire un processo con oltre 150 imputati e relativo non soltanto all’assassinio Tobagi ma a tutta l’area della sovversione di sinistra.

Ci furono molte polemiche soprattutto a risalto delle tante incongruenze. Fu infatti scelto come referente privilegiato Marco Barbone, il quale, pentitosi subito dopo l’arresto, cominciò a fornire una notevole mole d’informazioni sugli ambienti della “lotta armata”.

Tale scelta appare irrituale se si considera che il generale Carlo Alberto dalla Chiesa in un’intervista a Panorama rilasciata il 22 settembre 1980 (tre giorni prima dell’arresto del terrorista), fa cenno all’assassinio di Tobagi e alla Brigata XXVIII marzo e parla di aver « usato la stessa tecnica adottata a Torino nel ’74-75 per la cattura di Renato Curcio: massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione». Ossia, le forze dell’ordine e la magistratura potevano già disporre di una serie d’informazioni relative al gruppo terroristico e al delitto. Nonostante ciò, come già detto, durante il dibattimento ci si basò sulle dichiarazioni di Barbone, il quale non fu arrestato come sospetto per l’omicidio ma con i seguenti capi d’accusa: appartenenza alle FCC, a Guerriglia rossa e partecipazione alla rapina ai Vigili urbani di via Colletta. Nella stessa intervista il generale afferma che vi sono sostenitori della Brigata XXVIII marzo tra i giornalisti. Altra stranezza è la insolita uniformità di punti di vista tra PM e difesa di Barbone e la contrapposizione, altrettanto insolita, tra accusa e parte civile, la quale si vide rifiutare ogni istanza tesa a chiarire le dinamiche del delitto e le circostanze che portarono Barbone a pentirsi. Tante altre le difformità e incoerenze che lasciamo al passato perché oggi vogliamo ricordare il valore e la caratura del giornalista. Walter Tobagi l nacque il 18 marzo 1947 a San Brizio, una frazione del comune di Spoleto, in Umbria. All’età di otto anni la famiglia si trasferì a Bresso, vicino a Milano, poiché il padre Ulderico era un ferroviere.

La sua carriera di giornalista cominciò al ginnasio, come redattore del giornale del Liceo Ginnasio Giuseppe Parini di Milano La Zanzara, reso famoso per un processo provocato da un articolo sull’educazione sessuale. Dopo il liceo, entrò giovanissimo all’Avanti! di Milano, ma vi rimase solo pochi mesi per poi passare al quotidiano cattolico Avvenire Poco più che ventenne nel 1969 Walter era definito da tutti un ragazzo preparatissimo, acuto e leale dove non c’era argomento che non lo interessasse, dalla politica allo sport, dalla filosofia alla sociologia, alle tematiche, allora di moda, della contestazione giovanile e questo faceva di lui un giornalista dalle grandi prospettive che avrebbe poi affrontato qualsiasi argomento con la pacatezza del ragionatore, cercando sempre di analizzare i fenomeni senza passionalità.

Della contestazione condivideva i presupposti, ma respingeva le intemperanze. Sia all’Avanti! che all’Avvenire si occupò di argomenti diversi, ma andava sempre più definendosi il suo interesse prioritario per i temi sociali, per l’informazione, per la politica e il movimento sindacale, a cui dedicava molta attenzione anche nel suo lavoro «parallelo», quello universitario e di ricercatore. La prima inchiesta ampia pubblicata su Avvenire fu sul movimento studentesco a Milano, quattro puntate di storia, analisi, opinioni sui gruppuscoli e sulle lotte del movimento degli studenti in quegli anni, un’inchiesta che costituì la «base» per un più organico e ampio lavoro pubblicato nel 1970 da Sugar col titolo Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia sul cui frontespizio si leggeva: «Il Movimento studentesco espressione dei ceti medi proletarizzati può essere considerato di fatto una avanguardia proletaria? Dalla prospettiva del Movimento il Partito comunista va considerato come ‘l’ala destra del movimento operaio’ oppure “l’ala sinistra del movimento operaio’.

Ma non trascurò neppure i temi economici realizzando inchieste in diverse puntate sull’industria farmaceutica, la ricerca, la stampa, l’editoria e altro. In quegli stessi anni si mostrò interessato anche alla politica estera, in particolare all’India, alla Cina, al Medio Oriente, alla Spagna alla vigilia del crollo del franchismo, alla guerriglia nel Ciad, alla crisi economica e politica della Tunisia, alle violazioni dei diritti dell’uomo nella Grecia dei colonnelli, alle prospettive politiche dell’Algeria.

Tobagi fu in seguito conosciutissimo per l’impegno che dedicò alle vicende del terrorismo, a cominciare dalla morte di Giangiacomo Feltrinelli e dall’assassinio del commissario Calabresi. Si interessò, inoltre, alle prime iniziative militari delle BR, ai «covi» terroristici scoperti a Milano, al rapporto del questore Allitto Bonanno, alla guerriglia urbana che provocava tumulti e morti per le strade di Milano, organizzata dai gruppuscoli estremisti di Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia operaia. Passò poi al Corriere d’Informazione e, nel 1972, al Corriere della Sera, dove poté esprimere pienamente le sue potenzialità di inviato sul fronte del terrorismo e di cronista politico e sindacale. Walter preparava gli articoli con una montagna di appunti, decine e decine di telefonate di controllo, consultazione di leggi, regolamenti, enciclopedie. Era meticoloso e non lasciava mai nulla di intentato sviscerando fino in fondo gli argomenti e le vicende che aveva “sotto mano”. Insomma svolgeva una mole di lavoro enorme ma quando si metteva alla macchina da scrivere “la sua penna si faceva davvero sentire”.

Spesso gli capitava di giungere a conclusioni opposto da come era partito ma non si faceva nessun problema rianalizzando e riscrivendo tutto perché il suo solo problema era quello di arrivare alla verità, a qualunque costo e con metodo rigoroso come lo ricordano ancora oggi al Corriere della Sera. A detta di colleghi e di tanti che lo conobbero 40 anni fa è per il suo voler innanzitutto «capire», che Tobagi è stato ucciso. La pensa così, ad esempio, Giampaolo Pansa, che ha rilevato come: Tobagi sul terrorismo aveva capito che si trattava del male più pericoloso per questo paese a fine anno ’70. Tobagi sapeva che il terrorismo poteva annientare la nostra democrazia. Dunque, egli aveva capito più degli altri: era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era stato capace di mettere la mano nella nuvola nera.

RD Leo

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