giovedì, Maggio 16, 2024
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Indro Montanelli, l’altro punto di vista

Se dobbiamo metterci nella posizione di accettare arte, conoscenza, cultura solo da chi è moralmente ineccepibile, non ci resterà in mano nulla se non la nostra stessa morale.

Indro Montanelli morì nel 2001 a 92 anni, a Milano, dopo una lunghissima carriera da giornalista e commentatore trascorsa soprattutto al Corriere della Sera. La decisione di dedicargli una statua fu presa nel 2005 dall’amministrazione di centrodestra di Milano, guidata dal sindaco Gabriele Albertini (in carica dal 1997 al 2006). Sembra che l’idea fu proprio di Albertini: nel 2005 il Corriere della Sera scrisse che il sindaco considerava Montanelli “un secondo padre” e che teneva così tanto alla statua che per commissionarla saltò un importante consiglio comunale in cui si doveva discutere della vendita della società che gestisce gli aeroporti di Milano, la SEA.

“E’ un’opera – spiegò allora Albertini – che potrebbe stare in un cimitero monumentale, ma è stata realizzata lì, in quel giardino dove pensava i suoi articoli facendo lunghe passeggiate, poco distante da dove si era aggrappato alla cancellata quando venne gambizzato dalle Br”.

Ed è questo il punto. Indro Montanelli è stato un grande giornalista, che ha con forza combattuto per la libertà di stampa.

Si è distinto per concisione, limpidezza della scrittura e lucidità di analisi.

Verrebbe naturale dire: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Gli esseri umani sbagliano, sono figli della propria epoca, commettono errori.

E, sicuramente, il “matrimonio” di Indro Montanelli con Destà non rappresenta un bel capitolo della sua vita. Tuttavia Indro Montanelli non è solo questo. Tra l’altro si potrebbe stilare un lungo elenco di persone del nostro tempo e di personaggi di altri tempi che pure non hanno brillato in termini di rispetto nei confronti delle donne, o di persone di diversa etnia, magari anche più subdolamente, ma in maniera pur sempre grave.

Il sospetto è che l’attacco alla statua dell’illustre giornalista possa essere frutto di una strumentalizzazione, tesa non a riscattare una ingiustizia, ma una ideologia. Perchè, a guardare bene la storia, ci sarebbero molte altre cose, volendo, da contestare, ma non imbrattando le statue, non negando i passaggi della stessa.

Imbrattare le statue, o decapitarle, non serve a nulla e denota solo incivilità. Questo ci insegna una grande verità: il concetto di democrazia non è acquisito per sempre. La democrazia dovrebbe essere connotata da un confronto civile, basato sull’analisi di tutti gli aspetti del pensiero dell’una e dell’altra parte. L’imposizione delle prorie idee è sempre e comunque una brutta forzatura, da qualsiasi “area” provenga.

Ora, tornando a Montanelli, nel 1935, a 26 anni, partì volontario come giornalista-soldato in Etiopia, sottotenente in un battaglione di àscari eritrei e abissini. Il suo attendente di colore (sciumbasci) suggerì a lui e ai commilitoni single di sposarsi. Ebbe così una relazione con una ragazzina eritrea di 12 anni, mentre altre fonti parlano di una giovanissima di 14 anni. In una intervista televisiva Montanelli dichiarò però “di aver regolarmente comprato dal padre” una bambina di 12 anni, per sposarla. Il codice penale italiano (art. 159 c.p.) considerava violenza carnale i rapporti sessuali con minori di 14 anni, ma il codice civile vigente all’epoca (articoli 68 e 100 c.c.) consentiva il matrimonio purché la sposa avesse almeno 12 anni e riconosceva valido il matrimonio del cittadino italiano all’estero qualora avesse contratto detto matrimonio secondo le forme stabilite in quel Paese.

Ciò rendeva in ogni caso legittimo il rapporto tra Montanelli e la sua sposa, visto altresì che detto matrimonio indigeno non venne mai impugnato da alcuno ai sensi dell’art. 104 c.c. Fatìma, che in un articolo de La stanza di Montanelli del 2000, dove ricostruisce minuziosamente la vicenda del suo primo matrimonio, la chiama invece Destà fu comprata dal suo «sciumbasci» Gabér Hishial versando al padre la convenuta cifra di 350 lire (la richiesta iniziale era di 500), più l’acquisto di un «tucul» (una capanna di fango e di paglia) di 180 lire. Compresi nel prezzo ebbe anche un cavallo e un fucile.

«Vista l’usanza degli ascari di combattere con la moglie al seguito, decisi anch’io di sposarmi. I miei uomini mi procurarono una giovane e bellissima eritrea […]. In questo modo, ogni due settimane mi ritrovavo, al pari dei miei uomini, con i panni puliti.»

La ragazza rimase al suo fianco per l’intera permanenza in Africa. L’usanza del madamato, dapprima tollerata e talvolta attuata su spinta dei capi-reggimento locali, fu poi proibita nell’aprile 1937 per limitare le infezioni veneree e per evitare contatti tra italiani e africani: il provvedimento fu poi seguito l’anno dopo dall’emanazione delle leggi razziali. Prima del ritorno in Italia la cedette al generale Alessandro Pirzio Biroli, che la introdusse nel proprio piccolo harem. In seguito la ragazza sposò un militare eritreo che era stato agli ordini di Montanelli nella guerra coloniale.

Questi sono i fatti. Come anche è un fatto l’attentato subito dal giornalista da parte dalle Brigate Rosse il 2 giugno 1977, a Milano. Mentre come ogni mattina, dopo essere uscito dall’Hotel Manin, dove risiedeva, si stava recando in redazione, venne ferito all’angolo fra via Daniele Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nuovo, nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7,65 munita di silenziatore. L’attentatore gli sparò otto colpi consecutivamente, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica, secondo una pratica definita – con un neologismo coniato in quel periodo – gambizzazione.

Il gruppo brigatista era formato da Lauro Azzolini, Franco Bonisoli e Calogero Diana: fu quest’ultimo a sparare. Gli attentatori, che probabilmente non sapevano che Montanelli portava con sé una pistola, lo avvicinarono di spalle chiamandolo per nome. Mentre il giornalista, fermatosi, stava girandosi per rispondere, Diana gli sparò a distanza ravvicinata. Colpito, Montanelli sentì cedere le gambe, ma decise di non estrarre la pistola. Il suo unico pensiero fu di non lasciarsi cadere a terra: si aggrappò alla cancellata dei Giardini  mentre urlava: «Vigliacchi, vigliacchi!» all’indirizzo dell’attentatore e dei complici in fuga; poi si lasciò scivolare a terra. Poco dopo dichiarò ad un soccorritore: «Quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere». I proiettili trafissero la carne, senza però ledere né ossa né vasi sanguigni. Lauro Azzolini affermò che se Montanelli avesse estratto la sua pistola sarebbe stato sicuramente ucciso.

Tutta la stampa italiana diede grande rilievo all’attentato contro Montanelli. Con due significative eccezioni: il Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone, e La Stampa, diretta da Arrigo Levi, che arrivarono addirittura a omettere nel titolo di prima pagina il nome di Montanelli, relegandolo al sommario. Il Corriere della Sera titolò: I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate rosse rivendicano gli attentati; poi nel suo editoriale, pur esprimendogli una solidarietà senza riserve, avvertì i propri lettori che il collega ferito «rappresenta e difende posizioni nelle quali non ci riconosciamo». Per colmo, sia Arrigo Levi che Piero Ottone faranno poi visita al capezzale di Montanelli, che prenderà nota nei suoi Diari dell’imbarazzante visita dei due, con il consueto sarcasmo.

Lucia Mosca

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