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Quella lucerna che illumina due patrie: in mostra le edizioni “cinquecentine” delle opere di Bartolo da Sassoferrato

Edizioni “cinquecentine” delle opere di Bartolo da Sassoferrato, sepolto a Perugia, in mostra fino al 19 agosto a Palazzo degli Scalzi della cittadina marchigiana

di Lucio Biagioni

Non è che ci vorrebbe un Bartolo da Sassoferrato, “lucerna iuris” o “faro del diritto” come fu chiamato ai suoi tempi, a dirimere la guerra dei dazi di Donald Trump, nel superiore interesse, al di là dei “particulari”, di una universale visione dell’umanità, del suo destino e felicità comune? La visione unificante, cioè, di quello studioso e chiosatore e produttore infaticabile di testi, che nella sua breve vita, dal 1314 al 1357, ripercorse e riaccorpò il corrente canone giuridico? tanto da far esclamare in latino, con uno slogan che non sfigurerebbe oggi in pubblicità, “Non può dirsi buon giurista chi non sia buon bartolista”?
Da Sassoferrato venne Bartolo da giovinetto a Perugia, a fare gli studi, e Perugia divenne la sua seconda patria, non inferiore all’altra in termini di attaccamento, ma equamente condivisa, come la giusta società umana che avrebbe dovuto svilupparsi armonicamente fra la Chiesa e l’Impero.
“Seppellitemi qui”, disse un giorno che, nel Convento di San Francesco al Prato a Perugia, non distante da dove abitava nello stesso quartiere, in una casa della parrocchia di Santa Maria dei Francolini (e una via Francolina c’è ancora), radunò intorno a sé il notaro Giacomo Nelli con sette francescani per testimoni e parte in causa. “Seppellitemi qui, nel caso io dovessi qui morire. Ma se invece”, proseguì, “il Signore volesse disporre altrimenti, e far sì ch’io a Sassoferrato, dal quale da ragazzo venni a Perugia a dorso di mulo, terminassi i miei giorni mortali, allora ti prego, Giacomo notaro, di stabilire che io colà abbia sepoltura, in quella stessa casa di Dio ugualmente titolata a Francesco, che sta nella mia città natale”.
Questa salomonica scelta di fondo fu confermata dai cosiddetti “lasciti pii”, che conseguentemente andarono in parti uguali alle chiese pertinenti ai conventi francescani di Perugia e Sassoferrato. Né, a riconoscenza per la città che lo aveva accolto e formato, si dimenticò Bartolo di beneficare l’Ospedale di S. Francesco di Porta Susanna e i poveri della città di Perugia. Non fiori, ma opere di bene. Pro anima, fate questo in memoria di me. Sistemate equanimemente le cose celesti, senza far torto né alle patrie né ai religiosi di quell’ordine che amava così tanto da suggerir loro come conciliare tecnicamente il voto fratesco di povertà con i cospicui lasciti testamentari, Bartolo pensò quindi alle cose terrene.
Usò anche in questa circostanza quell’esattezza che gli veniva dalla consumata professione e dal piacere di quei costrutti razionali nei quali era maestro, che nella loro apparente astrazione erano chiamati a governare con saggezza i concreti destini degli uomini. “Giacomo notaro, prendi nota. Lascio la dote, i vestimenti, la mobilia, i terreni rurali di San Cipriano di Boneggio a mia moglie Pellina Bovarelli; le doti alle mie figliuole Santa, Paola, Francesca e Nella, oltre che alla nipotina che è già nata ed alle altre che dovessero seguirla, epperò, notate Notaro, con clausola di sostituzione fedecommissaria, in caso di loro decesso senza figli, in favore dei discendenti maschi. Nomino altresì i miei figliuoli Francesco e Luigi, con i loro eventuali figli maschi postumi, eredi universali, anch’essi soggetti, qualora il Signore non facesse loro la grazia di figli maschi legittimi, alla medesima clausola di sostituzione. Nomino altresì”, e qui snocciolò alcuni nomi che furono devotamente annotati, pur nella scaramanzia dei presenti che comunque gli auguravano ancora lunga vita, “i tutori per i figli non ancora maggiorenni”. Si dimostrò invece un uomo accorto. Quindici mesi dopo, infatti, a quarantasei anni (o quarantotto, come vogliono altri), Bartolo da Sassoferrato morì.
Non me ne voglia il mio amico Ferdinando Treggiari, professore di storia del diritto medievale e moderno all’Università di Perugia, dal cui bel libro “Le ossa di Bartolo/ Contributo alla storia della tradizione giuridica perugina” (Perugia, Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, 2009) ho liberamente tratto le notizie per questa drammatizzazione apocrifa del testamento di Bartolo da Sassoferrato. Che morì in effetti a Perugia. E le “ossa di Bartolo” sono quelle “OSSA BARTOLI”, che figurano come la “semplice iscrizione sotto la statua di rilievo al naturale di detto Bartolo”, nella chiesa di San Francesco al Prato, dove l’illustre giureconsulto fu sepolto, “a piedi la Cappella degli Alfani”, precisa Cesare Crispolti nella sua “Perugia Augusta”, memorie storiche cittadine composte nel 1608 e pubblicate quarant’anni dopo dal nipote omonimo, padre della Congregazione dell’Oratorio di Perugia, con dedica all’eminentissimo cardinale Gasparo Mattei. Sopra la sepoltura, nota il curatore, che si prese la briga anche di aggiungere al libro una terza parte, “vi è un gran marmo rosso, ove si vede già tosto lineata, che scolpita l’effigie di Bartolo, con alcune lettere intorno, le quali per essere corrose dall’antichità (e questo accadeva ai primi del Seicento, NdR) non si possono leggere; Mà (sic) giudicando la famiglia degli Alfani, questa sepoltura fosse alla grandezza d’un tant’huomo disconvenevole, gli fece fare quivi sopra un’altro (sic)tumulo, con gli ornamenti di molte statue”, e il “rilievo al naturale”, di cui si parlava.
Aspettando che la chiesa di San Francesco al Prato, riconvertita in auditorium, sia inaugurata, come promesso, il 4 ottobre prossimo, e nell’assenza di notizie precise sulla sorte delle antiche salme ivi custodite delle famiglie illustri, salvo che dovrebbero essere ricollocate “in terra consacrata”, contentiamoci della mostra che a Bartolo, marchigiano e perugino, viene in questi giorni dedicata a Sassoferrato, promossa dall’Istituto internazionale di Studi Piceni “Bartolo da Sassoferrato” come una ideale prosecuzione del convegno che a Bartolo ed alla “nobiltà delle professioni legali” venne dedicato nel 2014 a Perugia: a Palazzo Scalzi, sede della Galleria civica di arte contemporanea, si potrà godere, fino al 19 agosto, della rara visione di altrettanto rare edizioni “cinquecentine”, stampate cioè con la tecnica dei caratteri mobili, di una trentina di opere del prolificissimo autore.
È una “staffetta”, goloso appuntamento per studiosi e curiosi, per ricordare e discutere ancora del lascito di un grande personaggio di frontiera, che fonda storicamente col suo bell’esempio ogni moderna iniziativa comune fra Umbria e Marche, compresa la “macroregione”. Nell’idea di quella Terra di Mezzo feconda che non conosce confini.

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