mercoledì, Aprile 24, 2024
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La vita di Carlo Magno – conclusioni

carlo magno

Per una visione di sintesi si può affermare che Carlo Magno fu un principe del suo tempo, un militare sempre pronto ad andare in guerra, cui si allenava con le cacce annuali, e che amava gli spiedi di selvaggina e le donne: riferiscono alcuni, tra la numerosa letteratura che si è occupata di lui, che ovunque andasse ne disponeva (chi poteva dirgli di no?), e che da tutte ebbe non meno di 100 figli ( lo stesso si dice di Attila, mentre è certo che Rodolfo III da Varano morto a Beldiletto nel 1424 ne procreò 64 di cui 54 viventi).

Carlo aveva una cultura simile a quella di uno dei suoi conti, forse anche minore: infatti non riuscì mai a scrivere correttamente, mentre il conte, funzionario che aveva il diretto obbligo di amministrare, giudicare e riferire, doveva saperlo fare. Era però furbo, lucido e intuitivo come tanti dei decani dei mansi addetti a coltivare le sue terre, per i quali emise il Capitulare de Villis, uno storico e insuperabile insegnamento di come deve essere amministrata una azienda agricola; e avendo avuto conoscenza della cultura di tanti popoli, che combatté e sottomise, ne aveva tratto, per sommatoria, una straordinaria esperienza.

Pur con il collo grasso ed il ventre sporgente era un bell’uomo, imponente e di gradevole aspetto, e con la sua presenza reggeva degnamente e con prestigio la carica imperiale, aiutato da un viso mobile sempre pronto al sorriso. Vestiva modestamente e secondo l’uso dei Franchi, e solo quando vi era obbligato indossava l’abito da cerimonia, portando in cintola la spada con l’impugnatura d’oro, simbolo di nobiltà.

Aveva ereditato dal padre Pipino, il maestro di palazzo e poi usurpatore dei Merovingi, un regno di cui raddoppiò la consistenza e che trasformò in impero. Avendo capito che la religione costituiva uno straordinario collante di massa ne favorì la funzione costruendo chiese e monasteri, incaricandosi poi di controllare e nominare vescovi e abati, affinché esercitassero in suo favore i loro poteri: per questo motivo corse a Roma quando i papi lo richiesero per essere protetti, ottenendo in cambio da Leone III la dignità imperiale.

Tale titolo di imperatore dei Romani, nuovo imperatore d’occidente e spina nel fianco di Bisanzio, gli consentì di trovare accordi con Leone IV e Costantino VI imperatori d’Oriente, meditando anche di riunire i due imperi sposando Irene, vedova del primo e indegna madre del secondo, al quale, per gli stessi motivi, aveva promesso in sposa sua figlia Ruodtrude. Modestamente colto, ma intuendo l’importanza della cultura e della sapienza, sotto la regia del monaco Alcuino di York, uno dei più grandi pensatori del suo tempo, emanò vari capitolari riguardanti l’insegnamento nelle scuole, e fondò la Scuola Palatina circondandosi di menti ed ingegni da cui trarre lumi nel diritto, insegnamenti nella letteratura e beatitudine nella poesia. Tra i tanti, accanto ad Alcuino, che fu suo stretto consigliere, ricordiamo il grammatico Pietro da Pisa, il teologo e poeta Paolino di Aquileia, lo storico Paolo Diacono, il poeta Teodolfo, e lo stesso Eginardo, versato nella architettura e cronista delle sue storie.

Viene da pensare che non volle far maritare le figlie non tanto per averle sempre intorno, quanto per il pericolo di vedere violata la legge salica a fronte di una loro eventuale discendenza: e ciò sia per il suo carattere amorevole verso tutti i figli, che non gli avrebbe consentito di regolare in maniera dura le questioni che potevano insorgere, sia per l’obbiettivo pericolo che, alla sua morte, i figli maschi delle femmine nati da matrimonio entrassero in guerra con i figli maschi dei maschi per il governo del regno.

E’ stato voluto indicare da molti come il primo fondatore dell’Europa, dal momento che il suo impero ne occupava quasi tutto il territorio, e per ragioni di commercio aveva adottato una unica moneta: ma una Europa fragile proveniente dall’alto, e non una Europa voluta e formata da un insieme di popoli liberi; tanto fragile che subito dopo la sua morte iniziò a franare, fino a dissolversi con la nascita dei regimi feudali di Francia, di Germania, d’Austria, e dei vari potentati d’Italia.

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Va ora ricordato che proprio da Macerata parte una storia parallela sulla vita di Carlo Magno, una storia che don Giovanni Carnevale, studioso e docente ultranovantenne, coltiva da più di mezzo secolo: secondo questo studioso la basilica di San Claudio a Chienti sarebbe la vera Aquisgrana, Carlo Magno vi ebbe sepoltura, il padre Pipino e la madre Berta si troverebbero tumulati nella cattedrale di San Ginesio,  e Urbisaglia sarebbe la Roma nella quale nel secolo IX il papato, sotto la minaccia degli arabi che risalivano l’Appia antica, trasferì la sua sede, che lì rimase per lungo tempo. Don Giovanni ha dedicato ai suoi studi diversi libri, nell’ultimo dei quali – Da Carlo Magno alla Roma Picena – ed. Simple aprile 2019 – scritto a quattro mani con Domenico Antognozzi, riepiloga minuziosamente considerazioni, indizi e documenti sui quali fonda la sua teoria. Un tempo deriso senza rispetto da tutti oggi la sua storia, condivisa da molti discepoli, muove la curiosità e l’interesse di vari critici, e il fronte del negazionismo più assoluto è stato spezzato da apprezzamenti ancorché prudenti e relativi. Andando sul web e cliccando Don Giovanni Carnevale si possono individuare tutte le sue opere che, per la loro particolarità e perché frutto di una instancabile ricerca, meritano di essere lette.

Luciano Magnalbò