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Minoranze religiose, media e crimini d’odio. Intervista con la psicologa Raffaella Di Marzio

Minoranze religiose, media e crimini d’odio. Intervista con la psicologa Raffaella Di Marzio

Roma – Alcuni giorni fa abbiamo dato notizia della pubblicazione del libro della psicologa e studiosa delle religioni Raffaella Di Marzio direttrice del Centro Studi Lirec dal tema Scelta e abbandono di una comunità spirituale. Percorsi di cambiamento e sviluppo personale (https://www.dimarzio.info/recensioni-1)

Con la dottoressa Di Marzio abbiamo discusso sulla situazione delle minoranze religiose in Italia, spesso additate come comunità chiuse che esercitano forti pressioni sulle scelte individuali e dalle quali è difficile andarsene o disaffiliarsi.

Dottoressa Di Marzio, stiamo parlando di minoranze religiose; ma per avere un quadro preciso della situazione religiosa oggi, quanti sono in Italia i non cattolici?

In Italia i dati sulla diffusione delle minoranze religiose forniti dal CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) certificano la presenza di 866 minoranze religiose sul territorio, considerando da una parte i 53.789.453 cittadini italiani e confrontandoli con il totale della popolazione residente ‒ fissata a 58.983.122 unità, siamo a una percentuale del 4,2% di persone manifestano un’identità religiosa diversa dalla cattolica in Italia. Se si considerano i residenti sul territorio la percentuale di appartenenti a minoranze religiose sale al 10,6% (www.cesnur.com).

In base ai suoi studi e ricerche è così traumatico abbandonare un gruppo religioso minoritario come descritto da alcuni media?

Generalmente, le esperienze di disaffiliazione dai nuovi movimenti religiosi, prese in considerazione da una minoranza di studiosi, dai mezzi di informazione e diffuse da organizzazioni antisette, sono quelle di ex-membri ostili al gruppo che hanno abbandonato, spesso impegnati a rendere pubblica la loro esperienza negativa con tutti i mezzi a loro disposizione. Considerando l’esiguo numero di ex-membri appartenenti a questa tipologia, come documentato anche da numerose ricerche che ho citato nel mio libro, è del tutto plausibile che tutti gli altri disaffiliati rappresentino un campione molto più ampio, se si guarda ai dati relativi al numero complessivo di fuoriusciti.

I sette soggetti disaffiliati che ho intervistato (che hanno abbandonato questi cinque movimenti: Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Damanhur, Chiesa di Scientology, Hare Krishna e Testimoni di Geova) non manifestano atteggiamenti di ostilità,  rivalsa o rancore verso il gruppo che hanno lasciato e sei di loro, a differenza di quanto spesso si legge sui media, sono rimasti in buoni rapporti con i membri e la dirigenza dei gruppi, e dichiarano di aver ricevuto anche molti benefici, sia durante l’affiliazione sia dopo. Il tempo nel quale hanno frequentato il movimento ha lasciato nella loro vita dei frutti positivi che sono maturati nel periodo successivo. Nel caso dei soggetti presi in esame in questo lavoro, si è trattato di decisioni sofferte, ma libere, prese all’interno di un contesto sostanzialmente rispettoso e solidale che, per nessuno dei soggetti intervistati, ha significato l’inizio di un periodo travagliato nel quale si sono manifestati sintomi di disturbi mentali, tali da richiedere l’intervento di un professionista o di un gruppo di supporto. Sicuramente ci sono altre persone che si sono disaffiliate in modo diverso, con conseguenze tali da arrecare danni alla loro salute mentale, ma io ritengo che la loro esperienza non possa essere generalizzata.

Le stesse dinamiche di abbandono stigmatizzate da alcuni, si verificano anche nelle religioni maggioritarie come all’interno della Chiesa Cattolica?

Certamente anche la disaffiliazione da movimenti cattolici può essere traumatica e spesso si leggono testimonianze molto simili a chi ha abbandonato un movimento minoritario, perché l’abbandono di una comunità è sempre doloroso e i processi psicologici che ne sono alla base sono gli stessi.

Ci saranno altri studi in futuro che potranno ampliare le dinamiche dell’affiliazione o disaffiliazione?

Io spero di aver dato, con questo libro, un contributo alla ricerca in questo campo. Se la ricerca risponde ai criteri della metodologia scientifica, può individuare quali fattori siano in gioco e in che misura la scelta di aderire, rimanere o lasciare un nuovo movimento religioso contribuisca o meno a promuovere lo sviluppo individuale e sociale dell’individuo. Il compito della psicologia della religione è proprio quello di individuare sia gli elementi liberanti che quelli limitanti la crescita e la scelta libera in campo religioso. Un altro ambito che ho trattato nel mio libro, poco esplorato dalla ricerca, riguarda le dinamiche relazionali tra membri ed ex-membri, che ho rilevato dall’esame delle esperienze dei soggetti intervistati e illustrate nel secondo capitolo.

Di recente, in seguito a un caso di brutale omicidio che ha coinvolto una signora Testimone di Geova a Rimini, alcuni popolari programmi televisivi hanno parlato di “comunità chiusa dove avvengono cose oscure”. Inoltre la terminologia utilizzata dai media in questi giorni, tipo “tempio dei testimoni di Geova” o “luogo di incontri di preghiere” non corrisponde esattamente alla definizione di “Sala del Regno” che invece campeggia pubblicamente e in bella vista all’esterno di ogni Sala. Non c’è un certo grado di superficialità e forse di malafede da parte di alcuni giornalisti?

Certamente l’informazione sulle minoranze religiose rimane superficiale e spesso tendenziosa, fino ad arrivare alla diffamazione. Purtroppo la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova è una delle confessioni religiose più bersagliate. Il Centro Studi LIREC ha segnalato numerosi e gravi casi di disinformazione e diffamazione (un esempio:https://lirec.net/comunicati/2021/12/23/testimoni-di-geova-e-vaccini-ancora-disinformazione ), organizzato eventi sul tema e trattato questo grave problema nell’ambito di alcuni importanti Master universitari. In molti casi purtroppo la superficialità e l’ignoranza vanno di pari passo alla malafede dei giornalisti.

Lei spesso ha parlato di crimini d’odio verso le minoranze religiose. La diffusione di racconti “tragici” di ex appartenenti alle minoranze religiose, può contribuire, anche se indirettamente, ad azioni cruente nei confronti delle confessioni o gruppi in questione?

Io credo che questo sia possibile. L’OSCE definisce i crimini di odio come “atti criminali motivati ​​da preconcetti o pregiudizi nei confronti di particolari gruppi di persone. I crimini di odio comprendono due elementi: un reato penale e una motivazione basata sul pregiudizio”. Le motivazioni di pregiudizio possono essere definite come pregiudizio, intolleranza o odio diretti verso un particolare gruppo che condivide un tratto identitario comune, come la religione. Molto spesso non è la testimonianza in sé che crea il problema, ed è giusto che le persone possano liberamente manifestare le loro opinioni e il loro vissuto. Quello che è pericoloso e ingiusto è il ripetersi martellante di testimonianze di ex-membri che accusano il gruppo di cui hanno fatto parte di abusi  o crimini, testimonianze eccezionali che vengono generalizzate e amplificate dai media. Questo può contribuire a creare un clima di istigazione all’odio. Questo è molto pericoloso, in particolare, per le organizzazioni religiose che hanno lo status di minoranza in un dato territorio e la politica ei media si concentrano su di loro in un particolare momento.

Penso che le forze dell’ordine dovrebbero monitorare tutte le persone e le organizzazioni che diffondono informazioni false usando un linguaggio di odio nei confronti di una particolare minoranza. Mentre è difficile per le forze dell’ordine identificare preventivamente un individuo capace di compiere attentati, come è avvenuto ad Amburgo e in Kerala ai danni dei Testimoni di Geova, spetta loro indagare su chiunque inciti all’odio verso una particolare minoranza. Accade spesso, infatti, che dall’hatespeech si passi all’incitamento all’odio e infine all’azione diretta e violenta contro certe minoranze che diventano facili “bersaglio”, anche grazie allo stigma “settario” amplificato dai media senza alcun discernimento.

Quanto è importante la giusta comunicazione diffusa dai media in questo campo?

Credo sia determinante. Il Centro Studi LIREC ha recentemente organizzato il primo workshop destinato ai giornalisti di una radio italiana per sostenere una formazione adeguata in questo specifico ambito https://lirec.net/eventi/2023/4/25/lirec-organizza-workshop-migliorare-la-qualita-dellinformazione-su-minoranze-religiose-e-spirituali. Speriamo che questo tipo di iniziative trovi la disponibilità di altre testate e che la formazione dei giornalisti sia potenziata in questo settore così importante.

Roberto Guidotti

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