Le immagini di Ilaria Salis con le catene ai polsi e alle caviglie, nel giorno della prima udienza del processo che la vede coimputata per aggressione a due neonazisti, hanno fatto il giro della rete. Catene vergognose che sono strumento di mortificazione atto a marchiare la persona imputata secondo lo schema della giustizia penale che deve incutere terrore. Uno schema che colpisce la dignità personale e consente di tenere “al guinzaglio” anche chi sia semplicemente accusato di aver commesso un illecito. Secondo questa logica basta essere sospettati per venire visti come dei pericoli potenziali per la società, e a essa si viene mostrati in catene anche a titolo esemplificativo. Si tratta di uno schema che fa temere la giustizia invece di condividerla e considerarla un mezzo funzionale all’equilibrio e alla pace sociale.
Questo è il meccanismo nel quale è finita Ilaria Salis di cui si deve dimostrare ancora la colpevolezza. È da ormai quasi un anno in carcere, ora la procura ha formalizzato una richiesta di undici anni di pena a fronte di lesioni guarite in sei e otto giorni per le quali le vittime non hanno neanche sporto denuncia. La donna si dichiara non colpevole dall’inizio di questa brutta storia e l’avvocato ungherese che le è stato assegnato ha detto di recente, a chiare lettere, che le accuse sono tutte senza prove.
Appare evidente la sproporzione delle sanzioni richieste contro l’imputata che sta scontando una per lo meno sconcertante custodia cautelare in condizioni che la medesima descrive come disastrose.
Condizioni inaccettabili secondo il racconto di Salis, dal punto di vista igienico, alimentare, della vivibilità e della dignità personale. Queste testimonianze sono state riferite dalla stampa italiana e ciò ha portato l’amministrazione carceraria di Budapest a reagire. In una nota ripresa dall’AGI, il Servizio penitenziario ungherese smentisce i resoconti che parlano di ratti, cimici, scarafaggi e di brutalità da parte delle guardie. Il documento trova “triste e immorale” che alcuni media partecipino al “getto di fango” nei confronti del sistema carcerario in questione. Esso precisa che negli istituti penitenziari del paese vengono rispettate le norme di detenzione. E ancora: “Una prigione è una prigione perché non fornisce i servizi di un albergo a più stelle. Negli istituti forniamo ai detenuti tre pasti al giorno, la qualità del cibo non è certo vicina allo standard di un ristorante stellato Michelin, ma soddisfa i requisiti di una dieta sana”.
È pacifico che non ci sono prigioni a una o più stelle dove, serviti e riveriti, si possano consumare pasti al livello di ristoranti Michelin. Il punto non è questo ed è chiaro che il diritto alla replica è sacrosanto.
Ma andiamo avanti: il documento precisa che i detenuti che ritengano di aver subito violazioni dei loro diritti possono sporgere denuncia. E questo è già successo; un esempio è dato dalla sentenza pilota del marzo 2015. Con essa la seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo accolse all’unanimità il ricorso per violazione degli articoli 3 e 13 CEDU sollevato da sei detenuti e “condannò l’Ungheria a corrispondere somme comprese fra 5.000 e 26.000 euro a titolo di danno non patrimoniale. La vicenda riguarda sei cittadini ungheresi ristretti dal 2006 in diverse carceri del paese e in celle nelle quali avevano a disposizione uno spazio compreso fra 1,5 e 3,3 metri quadrati.
Le loro denunce comprendevano anche la mancanza di separazione fra le toilette e lo spazio restante delle celle e una serie di problemi igienici e di altro tipo: scarsità di lenzuola pulite, difficoltà di utilizzare le docce e il poco tempo da passare fuori dalle celle. La possibilità di sporgere denunce menzionata dalla nota del Servizio penitenziario ungherese non sembra però essere accettata così pacificamente da chi attualmente detiene il potere nel paese. Un altro esempio: nel discorso annuale rivolto alla nazione nel febbraio del 2020, il primo ministro Orbán ha attaccato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver imposto allo stato ungherese di indennizzare dei detenuti sulla base di segnalazioni di organizzazioni civili che denunciavano le condizioni disumane caratterizzanti il sistema detentivo nazionale.
L’amministrazione penitenziaria nega quanto affermato da Salis che, peraltro, ha fornito descrizioni dettagliate della routine carceraria; ad esempio quella riguardante la dotazione mensile per l’igiene personale: “100 milligrammi di sapone, quattro pacchi di carta igienica e un ciuffo di cotone per il ciclo mestruale”.
Ma al di là di questo, e del già menzionato sacrosanto diritto alla replica da parte di chi si senta attaccato, restano le immagini di Ilaria con le catene ai polsi e alle caviglie, tra due agenti incappucciati e in tuta mimetica. Modalità che rappresentano la negazione del progresso civile.
Quella di cui si tratta nel presente scritto è una storia dolorosa. La prossima udienza è prevista per la fine di maggio, e fino ad allora per la Salis, almeno al momento, la prospettiva è di restare per altri lunghi mesi in carcere. Parliamo di possibile condanna a undici anni ma, diciamoci la verità, la donna sta già scontando una condanna in barba a qualsiasi principio di carattere garantistico e della presunzione d’innocenza. Ilaria Salis deve tornare in Italia.
articolo di Massimo Congiu– Fonte MicroMega
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