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Hitler, Stalin e la Russia odierna: l’incubo di una famiglia di Testimoni di Geova

Quando Milena Jesenka “l’amica di Kafka” incontrò Margaret Buber Neumann nel campo di concentramento di Ravensbrück, le passò un bigliettino di nascosto sulla strada che attraversava il campo. Le chiedeva se era vero che i sovietici avevano consegnato a Hitler dei militanti antifascisti emigrati in Urss. Sì era vero e la Neumann era una di loro!

Aveva già passato tre anni nei campi russi, e ora avrebbe potuto fare raffronti suo malgrado con i campi nazisti. Il tragico “paragone” scritto, fra la reclusione sovietica e quella nazista vide la luce a nel 1948 con il famoso libro Prigioniera di Stalin e Hitler.

Chissà cosa avrebbe scritto la Buber Neumann se fosse venuta a conoscenza di quello che è accaduto appena due anni fa a un cittadino russo Ivan Pujda, 41 anni, arrestato il 30 maggio 2018, da agenti del Servizio Federale di Sicurezza. Ha passato quattro mesi in carcere. Dopo il rilascio, è rimasto altri sei mesi agli arresti domiciliari. Motivo: praticamente perché si professa Testimone di Geova come altre centinaia di suoi confratelli nella Federazione Russa e patisce una dura repressione da parte delle autorità statali e periferiche.

Ivan suo malgrado, ha una specie di primato difficilmente eguagliabile da qualche perseguitato politico, dissidente o eretico di qualche movimento.  Anche suo padre e suo nonno sono stati perseguiti e imprigionati perche appartenevano alla confessione dei Testimoni di Geova. Le tre generazioni hanno sperimentato le celle, il gulag sovietico e i  campi ci concentramento nazisti.

Il nonno di Ivan, Parcej fu imprigionato in due campi di concentramento nazisti e in un campo di lavoro in Russia. Nel 1943 mentre si trovava in Germania, un sacerdote lo denunciò alla Gestapo e fu arrestato con l’accusa di fomentare la sedizione. Nel giro di poco tempo finì nel campo di sterminio di Majdanek, in Polonia. Due settimane dopo fu mandato nel campo di concentramento di Ravensbrück. Poi nel 1952 fu arrestato di nuovo e condannato alla pena capitale; tuttavia la pena venne commutata, e nel 1956 fu rilasciato. Fu arrestato ancora una volta nel 1958 e mandato in un campo di lavoro nella Repubblica dei Mordvini. Si trattava di uno dei 19 campi di lavoro della Repubblica dei Mordvini. Il campo era circondato da un reticolato elettrificato alto circa tre metri e poi da altre 13 recinzioni di filo spinato. Il terreno intorno al gulag veniva dissodato di continuo in modo che nessuno potesse scappare senza lasciare impronte.

Grigorij, genero di Parcej che ha 64 anni, nel 1975, aveva già passato un anno in un campo di lavoro sovietico per obiezione al servizio militare. Nel 1977 venne rilasciato, ma poi nel 1986 passò un altro anno in prigione perché trovato in possesso di pubblicazioni bibliche vietate. Suo padre, anche lui di nome Ivan, era stato rinchiuso in un campo di lavoro dal 1944 al 1950 per la sua decisione di rimanere neutrale.

Da bambino Ivan sentiva raccontare le storie di vita vissuta dal padre. Mai si sarebbe aspettato negli ultimi hanno di assistere sulla sua pelle a una triste replica delle angherie sempre per motivi di credenze religiose a 75 anni dalla fine del Nazismo e a più di 30 dal crollo del Muro di Berlino. L’accusa per Ivan come per altri sui correligionari è di far parte di un’organizzazione bollata estremista come un gruppo neonazista o i terroristi dell’Isis. Per un movimento conosciuto in tutto il mondo come neutrale politicante e risolutamente refrattario a ogni a ogni forma di violenza e militarismo, si tratta veramente di una situazione assurda che potremo definire pirandelliana o kafkiana, visto che siamo in tema.

Certo che quando le Forze armate speciali armate fino ai denti fanno irruzioni nelle case dei testimoni dove risiedono anche donne, anziani e bambini e prelevano alcuni uomini, ragazzi compresi e li portano in caserma per confermare l’arresto, a qualcuno può tornare in mente realmente Joseph K. il protagonista del Processo di Franz Kafka. Il punto è che qui non si tratta di letteratura mai di fatti reali che colpiscono persone in carne e ossa. Tra l’altro, in piena pandemia da Covid-19 senza preoccuparsi molto delle norme sanitarie prescritte.

Si dice che Milena Jesenka pregasse la Buber Neumann di raccontare, una volta uscita dal campo la segregazione imposta dalle due dittature, quella comunista e quella nazista. La Buber Neumann a differenza della Jesenka sopravvisse e in effetti narrò la vicenda nel libro succitato. Descrisse tra l’altro anche le Bibelforscherinnen, le testimoni di Geova con il triangolo viola recluse nei campi nazisti. Il suo fu un percorso inverso rispetto ai Testimoni di Geova che dopo Hitler “passarono” a Stalin e da lì in poi subirono la durissima repressione sovietica. Ci pensò Alexander Solzenicyn noto dissidente in URSS ad narrare di loro in Arcipegalo Gulag, quando la Buber Neumann era ormai era una donna libera.

Ma neanche al più fantasioso e geniale scrittore sarebbe venuta in mente una sequenza dolorosa di questo genere, un trittico di oppressione e accanimento verso un’innocua e pacifica minoranza. Anzi volendo, il numero potrebbe salire a quattro, visto che si ha notizia di un Testimone di Geova imprigionato già in epoca zarista nel 1895, quando erano ancora vivi Tolstoj, Čajkovskij e Rasputin!

Quella attuale è indubbiamente una dolorosa e insensata ripetizione della storia, che riporta indietro l’orologio del tempo al periodo delle feroci dittature del Novecento. Un vessazione, di per sé sempre sbagliata, ma che diventa in questo caso profondamente esecrabile in quanto giudica e condanna le persone sulla base del loro pensiero e del loro culto personale, e che prescinde o ignora il comportamento esemplare a livello civico manifestato dalle vittime.

Roberto Guidotti

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