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L’eccidio di Canneto Sabino (Rieti) del 10 dicembre 1920 a lungo dimenticato

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L’eccidio di Canneto Sabino (Rieti) del 10 dicembre 1920 a lungo dimenticato – Il 10 dicembre 1920, in località Colle San Lorenzo di Canneto Sabino, frazione del Comune di Fara Sabina (che allora faceva parte della Provincia di Terni in Umbria e dal 1927 della Provincia di Rieti, costituita in quell’anno dal governo fascista), un reparto di Carabinieri uccise, nel corso di una manifestazione di braccianti agricoli per l’aumento della paga e per il rinnovo dei patti colonici, 11 persone, tra cui due donne (Bonanni Leonilde, Turchetti Luisa, Di Marco Antonio,  Giovannini  Giuseppe, Joschi Tullio, Lazzari Francesco, Marini Carlo, Perini Angelo,  Pandolfi  Luigi, Salusesto  Vincenzo, Vittori Marcello). Ci furono anche 13 feriti. Tra questi, una donna rimase invalida.

I braccianti, sia  locali che  stagionali provenienti dai paesi delle valli del Salto e  del Turano (Abruzzo), erano impegnati nella raccolta delle olive, che andava da ottobre a marzo,  e che era un lavoro faticoso dato che si faceva a mano, raccogliendo le olive a terra. Gli uomini erano pagati poche lire al giorno mentre le donne ricevevano 1 litro di olio ogni 60 Kg di olive raccolte. Quell’anno la produzione delle olive era scarsa per cui per raccoglierne 60 Kg ci volevano parecchie piante. Si aprì quindi una vertenza, indetta dalla Lega dei braccianti e sostenuta dalla Camera del Lavoro di Terni. Ci furono numerosi scioperi dei braccianti, con manifestazioni. I proprietari terrieri cercarono di creare una ‘guerra tra poveri’, sostituendo i braccianti locali, ritenuti più politicizzati e sindacalizzati, con lavoratori provenienti da altri paesi, anche lontani, disposti a lavorare con un salario più basso, e di questi ne furono assunti molti. Naturalmente questo fatto comportò l’inasprimento della lotta per la vertenza agraria.

Il 5 dicembre 1920 a Canneto ci fu un comizio tenuto dal Segretario della Camera del lavoro di Terni, Silvestro Motta.  

La versione sull’eccidio del 10 dicembre 1920 data dal  Prefetto di Perugia al Ministero dell’Interno fu la seguente:«Circa ore 11,30 nella frazione di Canneto arma Reali Carabinieri imbattutosi con circa 200 contadini scioperanti, quasi tutti armati, che in massa giravano nei campi, imponendo cessazione del lavoro, ingiunse a costoro di sciogliersi. Questi risposero con sassate e colpi di  arma da fuoco, onde i Reali Carabinieri  visti feriti  Tenente e due  loro compagni…fecero uso moschetti. I morti tra i contadini erano tre …oggi il Sottoprefetto mi riferisce essere sei».

Si comprende come nella relazione del Prefetto si sia minimizzata la tragicità del fatto, che comportò la morte di 11 persone, di cui due donne, e 13 feriti.

La verità emerse chiaramente nel corso del processo tenutosi il 12 maggio 1922 nella 1a Sezione di Accusa del Tribunale di Perugia. Infatti il Tenente Cavaliere, comandante della Compagnia dei Carabinieri, chiamati in rinforzo da Ancona per mantenere l’ordine pubblico,  fu condannato a 30 anni di reclusione  «per aver ecceduto colposamente» i limiti della legittima difesa e «per avere deliberatamente cagionato ad altri soggetti una lesione personale, con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di autorità».

L’appuntato dei Carabinieri Ruggeri fu condannato a 10 anni di reclusione per gli stessi reati, senza l’aggravante. Entrambi furono arrestati immediatamente e reclusi in carcere. Furono invece assolti dai reati di «promozione di insurrezione armata e di cospirazione ai danni del Regno d’Italia» sia il Segretario della Camera del lavoro di Terni,  Silvestro Motta, sia altri sindacalisti.

La sentenza molto dura nei confronti dei due Carabinieri scatenò una forte reazione all’interno delle Forze Armate, tanto che i Vertici militari si attivarono subito per far assolvere in Appello i condannati, facendo forti pressioni sul Governo. Al riguardo, il 22 maggio 1922 il Ministero dell’Interno inviò il seguente telegramma al Ministero di Grazia e Giustizia: «Codesta Amministrazione scrivente chiede un intervento urgente da parte di codesto Ministero al fine di ristabilire onore e rispettabilità delle Forze dell’Ordine, messi in dubbio da tale sentenza. All’uopo si segnalano le rimostranze del Comando Reali Carabinieri, Legione di Ancona, alla Corte di Appello di Perugia, nonché le rimostranze fatte e le preoccupazioni espresse  dal Sig. Gen. di Corpo di Aarmata, Porzio» (Comandante dei Carabinieri, tristemente famoso per le numerose esecuzioni sommarie e fucilazioni di soldati durate la Grande Guerra) tanto che «vi è il rischio che le stesse Forze dell’Ordine siano, da questa sentenza, demotivate e rese passive… Si ritiene perciò urgente un Vostro intervento al fine di ristabilire serenità e cordialità tra Istituzioni dello Stato».

Il Ministero di Grazia e Giustizia rispose il 3 luglio 1922, suggerendo al Ministero dell’Interno di  «inoltrare ricorso alla Suprema Corte di Cassazione, ai fini della remissione del processo e la rimessa degli imputati al Tribunale Speciale Permanente (Militare) di Roma, in quanto trattasi di reati  commessi da militari nell’espletamento delle proprie funzioni».

Il ricorso fu presentato il 12 agosto 1922 dalla Avvocatura dello Stato e fu accolto il 17 novembre dalla Suprema Corte di Cassazione, che rimise il processo al Tribunale Militare, che il 31 marzo 1923 assolse entrambi i militari dai reati loro ascritti.

In seguito, nel 1925, fu  disposto per entrambi il proscioglimento, il rimborso delle spese processuali e l’assegnazione di 5.000 lire al Tenente Cavaliere e di 1.000 lire all’appuntato Ruggeri come «gratificazione per gli importanti servizi resi».

Nessun risarcimento ebbero i familiari delle 11 vittime. Naturalmente, questo fu possibile con il Governo fascista che si era insediato dopo la marcia di Roma del 28 ottobre 1922. 

Lentamente si perse anche il ricordo dell’eccidio, di cui nel ventennio fascista non si poteva parlare.

Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti del PCI proposero la collocazione di una lapide commemorativa dell’eccidio, ma la Prefettura di Rieti si oppose. La lapide, già predisposta, fu conservata per oltre cinquanta anni da un militante comunista e fu collocata nella piazza di Canneto solo nel 2004 in seguito alla pubblicazione di alcune ricerche sull’eccidio. Infatti, negli anni settanta, dopo un silenzio durato trenta anni dalla nascita della Repubblica,  è iniziato un lavoro di ricerca storica  da parte di un gruppo di giovani  cannetani, riuniti nel ‘Collettivo del limone’, con il sostegno dell’amministrazione comunale guidata dal Sindaco Emolo Ceccarelli.

In seguito, la vicenda dell’eccidio è stata raccontata nella pubblicazione curata da Anna Maria Formichetti e da Roberto Giorgi e soprattutto nell’opuscolo curato da Emolo Ceccarelli e da Giovanni Franzoni (l’ex Abate della Basilica romana di S. Paolo fuori le Mura, che ridotto allo stato laicale era andato a vivere a Canneto)  sulla base  degli atti processuali, del dibattito  parlamentare e degli articoli pubblicati su vari giornali, pubblicato nel 2004, che portò alla collocazione della lapide nella piazza di Canneto.

Nel 2007 è stato collocato un cippo sul luogo dell’eccidio.

Nel 2010 c’ è stata  una commemorazione pubblica dell’eccidio da parte dei giovani  dell’associazione culturale ‘Popolo 33’.     

Nel 2014 Roberto Giorgi ha pubblicato sui tragici fatti del 10 dicembre 1920 il romanzo ‘Olive amare‘.

Prof. Giorgio Giannini

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