L’etica dell’incontro con l’Altro
Di Tudor Petcu
Il senso comunitario dell’esistenza costituisce o avrebbe dovuto costituire il fondamento primordiale della natura umana nella sua manifestazione teologico-essenziale. Il fondamento dell’amicizia, come direbbe Pavel Florenskji, non rappresentava la realtà storica dell’umanità, la quale optò per la sfiducia come stato di cose, sottomettendosi così volontariamente alla passione della distruzione.
In altre parole, l’uomo, preso genericamente, non ha potuto o non ha voluto assumere una pedagogia dell’amore verso l’Altro e verso il mondo circostante, il che ci fa comprendere il fatto che non ha saputo integrarsi in uno spazio vitale favorevole alla pace e all’armonia nella diversità. Infatti, e non credo che nessuno avrebbe nulla da eccepire, l’uomo manifesta in primo luogo e il più delle volte una violenza originaria nei confronti della differenza, anche quando quest’ultima dovrebbe manifestarsi nel proprio orizzonte interiore. Più concretamente, l’uomo in quanto essere vulnerabile, profondamente radicato nel lato naturale-istintivo, non accetta facilmente il passaggio da un paradigma esistenziale a un altro, cioè il fatto di conoscere se stessi o di scoprirsi sotto una nuova luce, il che lo rende notevolmente più difficile il suo corretto rapporto con l’Altro.
In generale, l’Altro, secondo la mistica ebraica esposta da Moses Maimonide, rappresenta la lezione suprema per disciplinare il proprio io, da cui ci allontaniamo attraverso le offerte metafisiche che portiamo alla superficialità quotidiana. Attraverso l’Altro può esserci una rivelazione del sé perduto, assorbito in una sorta di apocalisse dell’ignoranza personale.
Infatti, la maggior parte delle volte non vediamo l’Altro, vediamo solo un Altro che non siamo in grado di accogliere, ontologicamente parlando, nella nostra vita. L’ospitalità come significato metafisico, l’abbraccio dell’Essere dell’Altro sembrano cabine troppo lontane sulla Montagna della Conoscenza.
Ecco perché c’è una notevole distanza assiologica dall’etica dell’incontro con l’Altro perché non ci posizioniamo affettivamente nei confronti dell’incontro nella sua luce movimentata.
Sì, si può dire senza dubbio che l’Incontro, in tutta la sua complessità e unicità, è l’evento più penetrante perché il nostro io ha l’opportunità di conoscere un secondo di cui non sa nulla, cioè una coscienza che ha il status di singolarità personale come qualsiasi altra coscienza.
Ovviamente, per un tale grado di percezione, è necessaria una responsabilità etica di origine biblica nei confronti dell’Altro in modo tale da scoprirlo e comprenderlo come è al di là di ciò che pensiamo che sia.
L’incontro presuppone una dolcezza complessiva e una curiosità metafisica verso l’Altro, un’emozione morale-intenzionale che plasma in modo coerente la relazione “ich und du” (tu ed io) per giungere alla conoscenza attraverso “miteinander” (l’altro).
Un simile esercizio di responsabilità etica rappresenta in realtà la quintessenza della tolleranza pura, inscritta nel codice sapienziale dell’esistenza autentica, fondato su due grandi principi coordinati: l’umiltà attitudinale e la riflessione interrogativa.
Pertanto, il mondo in cui viviamo è permanentemente rappresentato da un incontro con l’Altro, ma un incontro che ci manca perché spesso ci poniamo fuori dall’imperativo etico della responsabilità. Così, l’incontro stesso diventa un’estemporaneità perduta e nella situazione in cui non possiamo sapere nulla di una seconda persona, perdiamo anche la scommessa della libertà interiore, cioè dell’eterna conoscenza di sé.
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