Riceviamo e pubblichiamo. “Negli ultimi tempi, i fautori del progetto di Autonomia Differenziata cui fa capo il disegno di legge Calderoli, che sta vedendo un’ampia mobilitazione contraria di cittadini e associazioni, per difendere la loro “creatura” affermano che essa non farebbe altro, in realtà, che dare attuazione alla Costituzione (all’articolo 116, comma 3). E che, dunque, gli allarmi di “stravolgimento” della stessa sarebbero infondati. Per alcuni le obiezioni e i timori rivolti al progetto dell’attuale maggioranza sarebbero la prova di un’opposizione prevenuta, soprattutto se le critiche sono promosse da chi ha sempre sostenuto la necessità di dare una attuazione rigorosa ai princìpi costituzionali. Ma come – si dice – una volta che finalmente diamo seguito alle disposizioni della Costituzione, i costituzionalisti protestano?
Se si considera però la realtà dei fatti, le intenzioni espresse e gli atti già compiuti, in base al principio di realtà ci si rende conto che l’eventuale realizzazione del progetto di autonomia differenziata per come concepito, e per come sta prendendo forma, produrrebbe un grave vulnus negli equilibri costituzionali complessivi. Pertanto, non solo non può essere considerata una riforma d’attuazione della Costituzione, ma deve denunciarsi il suo carattere sostanzialmente contra constitutionem.
Infatti, mentre il nostro sistema costituzionale configura un modello di regionalismo di stampo propriamente “solidale”, il modello proposto per realizzare l’autonomia differenziata, nonché in concreto configurata dalle richieste delle regioni interessate, opera entro una logicarigorosamente “competitiva”o, per meglio dire, di mera appropriazione delle funzionida parte dei territori economicamente più forti. Senza nessuna attenzione agli assetti e degli equilibri complessivi, senza alcuna solidarietà di popolo.
Ne è riprova la richiesta della Regione Veneto di ottenere tutte le possibili materie di devoluzione, nessuna esclusa. Senza, dunque, una valutazione di effettiva e concreta conformità. Senza l’applicazione di quei princìpi – espressamente previsti dall’articolo 118 della Costituzione – di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che legittimano sul piano costituzionale l’attribuzione di funzioni amministrative alle regioni, oltreché ai comuni, alle province, alle città metropolitane.
Una richiesta motivata, in realtà, da mera volontà di appropriazione delle risorse dettata dalla aspirazione a una gestione diretta dei servizi pubblici essenziali. Non sono i diritti a dover essere assicurati, ma sono le funzioni a dover essere trasferite. Un passaggio dettato da una “volontà di potenza”, ovvero finalizzato a potenziare i poteri locali, prima ancora che a tutelare le popolazioni. Se questo è il contesto storico, teorico e sistematico, mi sembra giusto e conseguente formulare il seguente giudizio critico: v’è il fondato rischio di un’attuazione dell’autonomia differenziata che operi in violazione dei princìpi supremi e inviolabili della nostra Costituzione.
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Il modello “appropriativo” delle intese
Se si leggono in questa prospettiva le proposte dell’attuale maggioranza (ma in realtà anche quelle dei governi precedenti) si evidenzia senza ombra di dubbio la distanza tra la solidarietà che sorregge il concetto di autonomia individuato in Costituzione e le logiche competitive e di natura brutalmente “appropriativa” che si stanno cercando ora di imporre nei rapporti tra le regioni e lo Stato centrale. Qualcuno ha scritto che si sta preparando una vera e propria “secessione” dei ricchi. Se anche si volesse essere più cauti, non si può comunque negare che sia la volontà di appropriazione sfrenata ed egoistica dei poteri e di tutte le competenze possibili a legare e spiegare la richiesta delle regioni. La riprova è nelle preintese siglate nel 2018 tra queste ultime e il governo Gentiloni. Nessuna analisi delle materie trasferite, ma solo una shopping list tra tutte le 23 materie indicate nel comma 3 dell’articolo 116, nessuna esclusa. Ciascuna regione ha potuto scegliere le proprie tante o poche materie di competenza per assicurarsi «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», senza alcun onere di motivazione o considerazione degli effetti di sistema che si sarebbero prodotti sugli altri territori. Scelte, dunque, non certo derivate dalle reali specifiche esigenze di differenziazione del territorio; sorrette, invece, solo dalla volontà da parte delle regioni di impossessarsi di quanto più potere, funzioni e gestione di interessi possibile, senza tenere in nessun conto le necessità delle altre parti del territorio nazionale e dei diritti delle persone altrove residenti. Un modello, dunque, che sconta una diseguaglianza nei territori, ciascuno artefice del proprio destino e dell’efficienza dei servizi forniti per garantire i diritti fondamentali esclusivamente agli abitanti del proprio territorio (non solo in materia di sanità, scuola, lavoro, ma in relazione a tutti i diritti coinvolti in qualche modo nei trasferimenti richiesti). Con una torsione che porterebbe persino a discriminare tra le persone nell’ambito del proprio territorio, come dimostrano le proposte – per fortuna bloccate, finora, dalla Consulta – di riservare ai soli residenti pluriennali l’accesso ai servizi pubblici locali, con palese violazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione”.
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