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Patria risorta col Risorgimento muore con Gabriele d’Annunzio

BRESCIA – La Patria Italiana risorta col Risorgimento muore con Gabriele d’Annunzio il 1 marzo 1937.

Il 20 settembre 1937, il poeta – soldato Gabriele d’Annunzio ottiene l’ultimo importante riconoscimento della sua carriera, con la nomina a Presidente della Reale Accademia d’Italia di Villa Farnesina che si occupava durante il Fascismo di coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti. Gabriele d’Annunzio succede a Guglielmo Marconi.
Il 30 settembre 1937, alla stazione di Verona, Gabriele d’Annunzio incontra per l’ultima volta Mussolini, cercando di distoglierlo dalla fatale alleanza con la Germania di Hitler, ma i suoi avvertimenti come soffio nel vento, non vengono assolutamente ascoltati, anzi il Duce utilizza la presenza dannunziana per fini propagandistici, abbracciando il Principe di Montenevoso in segno di successo per l’incontro con il Führer.
Alle ore 20.00 del 1 marzo 1938, il Vate muore in circostanze misteriose nelle sue stanze private della sua residenza al Vittoriale di Gardone Riviera (Bs). Morte naturale? Omicidio? Suicidio? Ha lanciato nel 2023 la proposta attraverso gli organi d’informazione affinché si faccia luce sulle reali cause della morte di Gabriele d’Annunzio (magari con una autopsia sui suoi resti mortali, per quel che è possibile ancora vedere), Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani.
Fatto sta che con la scomparsa di Gabriele d’Annunzio inizia la crisi della Patria, incarnata proprio dal mito del Principe d’Annunzio, Vate degli Italiani.
D’altronde, con la clamorosa disfatta di Adua fra l’1 e il 2 marzo 1896, l’uccisione del Re Umberto I di Savoia a Monza il 29 luglio 1900 da parte dell’anarchico Bresci che riteneva il sovrano reo di aver premiato, per le violenze sulla popolazione milanese, il generale Bava Beccaris, la scomparsa di alcuni dei grandi artisti, letterati, poeti e musicisti del Risorgimento Italiano come Giuseppe Verdi (Milano, 17 gennaio 1901) e Giosuè Carducci (Bologna, 16 febbraio 1907), pressoché solo Gabriele d’Annunzio restava nell’opinione pubblica dell’Italietta liberale ad incarnare i valori risorgimentali del sogno di una grande Patria degli Italiani.
A tal proposito, Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo, scriveva in francese “Les Dieux s’en vont, d’Annunzio reste”, “Gli Dei se ne vanno, d’Annunzio resta”, un’opera dedicata al Vate, degno modello da seguire dopo la perdita di due monumenti del nostro patrimonio artistico – letterario del calibro di Verdi e Carducci.
La figura del poeta abruzzese, pressoché ultimo dei giganti della letteratura italiana risorgimentale, era però invisa a tal punto ai burocrati in doppio petto dello Stato Liberale che per debiti Gabriele d’Annunzio fu costretto a lasciare la madrepatria e a riparare in Francia fra il 1910 e il 1915.
Quando intorno alla mezza età, Gabriele d’Annunzio ritornò in Italia, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, si prodigò per l’interventismo ad oltranza e durante il conflitto si arruolò volontario nella aeronautica nonostante la sua non più giovanissima età, perché la nuova arma dei cieli di certo incarnava gli ideali nobili dell’onore cavalleresco, ancora vivi durante la Belle Epoque, della sfida individuale con l’avversario nei cieli, sprezzanti del pericolo, in cui si identificava non solo il d’Annunzio poeta e letterato, ma soprattutto l’uomo di armi e di azione che compirà alcune gesta leggendarie, tra le quali; i voli su Trieste (7 agosto 1915), su Trento (20 settembre 1915), l’atterraggio di fortuna del 1916 dove perse l’uso di un occhio, rimanendo invalido di guerra, per così compiere sul mare la leggendaria “Beffa di Buccari” nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, con Luigi Rizzi e Costanzo Ciano (dove venne di fatto coniato da lui quello che sarà poi il motto della X Mas nella Seconda Guerra Mondiale “Memento Audere Semper”), e infine l’audace Volo su Vienna il 9 agosto 1918.
In virtù del suo coraggio e delle sue imprese, nel dopoguerra Gabriele d’Annunzio divenne per tutti i combattenti, reduci della Grande Guerra, il poeta – soldato, punto di riferimento delle rimostranze per quella che lui stesso chiamò la “Vittoria Mutilata” frutto di governi italiani che non riuscirono a tutelare a pieno gli interessi dell’Italia sui tavoli della pace.
Così, Gabriele d’Annunzio fu l’astro luminoso delle rivoluzioni nazionaliste del 1919, quella che compì con i legionari ( volontari e combattenti regolari) con l’impresa di Fiume (tra il 12 settembre 1919 e il 27 dicembre 1920), il cui sacrificio portò alcuni anni dopo la redenzione della città alla madrepatria italiana nel 1924, impresa che valse a Gabriele d’Annunzio il titolo nobiliare di Principe di Montenevoso.
In quello stesso anno, 1919, si vide per la prima volta l’astro nascente di quel maestro elementare e giornalista romagnolo, tale Benito Mussolini da Predappio che divenne il Duce degli Italiani che più cinico e pratico dell’intellettuale nobile ed esteta di d’Annunzio riuscì a prendere la fiducia degli industriali e del ceto medio italiano, creando il Fascismo, un movimento nazionalpopolare che prese poi il potere dopo la “Marcia su Roma” dell’ottobre 1922, ma che aveva mosso i primi passi con l’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919, a cui parteciperanno anche alcuni legionari fiumani, come ha raccontato anche Ruggero Morghen nel suo libro “Da Piazza San Sepolcro a Fiume Città di Vita” (Edizioni Solfanelli).
Eppure fu proprio con l’esperienza fiumana che nacquero i discorsi sui balconi, la mimica del controllo di massa nazionalista, il saluto romano e il grido di guerra poi ripreso in “Giovinezza” dai Fascisti “Eja Eja Alalà” , e con la Carta del Carnaro, ossia la Costituzione della libera Repubblica di Fiume furono garantiti diritti alle donne, a cui veniva dato finanche il diritto di voto attivo e passivo. Benito Mussolini, oltre i proclami e le lettere di incitamento a d’Annunzio non accettò mai i suoi inviti di un intervento concreto fascista a Fiume e, anzi il futuro Duce vide bene di tenersi a distanza dai legionari dannunziani quando il governo italiano spazzò via la repubblica dannunziana fiumana con le cannonate nei giorni del “Natale di Sangue” del 1920.
Di seguito la lettera integrale che Gabriele d’Annunzio inviò a Mussolini direttore de “Il Popolo d’Italia” e che il capo del Fascismo pubblicò solo parzialmente:
“Mio caro Mussolini,
io ho rischiato tutto, ho avuto tutto, ho dato tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio, d’una parte della linea d’armistizio, delle navi e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me. Non c’è nulla da fare contro di me. Nessuno può togliermi da qui. Ho e tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.

Lottiamo d’attimo in attimo, con un’energia che fa di quest’impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille.

Io ho tutti i soldati qui, tutti soldati in uniforme di tutte le armi. E’ un’impresa di regolari.

Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà.

Se almeno mezza Italia somigliasse ai fiumani, avremmo il dominio del Mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell’eroismo, dove sarà dolce morire.

Su scotetevi

Io non dormo da sei notti e la febbre mi divora. Ma sto in piedi e domandate come a chi mi ha visto. Alalà

mi stupisco di Voi e del popolo Italiano,

E voi tremate di paura!, Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abietto truffatore (Francesco Saverio Nitti che lui chiama Cagoja il gran porco) che abbia mai illustrato la storia. Qualunque altro paese, anche la Lapponia avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state li a cianciare mentre

Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi?

E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette.

Svegliatevi e vergognatevi anche.

Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non Vi guarderò in faccia”.

Di fatto pare che Mussolini avesse ricevuto poco prima del “Natale di Sangue” del 1920 emissari di Giolitti presso il caffè milanese Savini che gli proposero aiuti alle elezioni in cambio di restare fermo e di accettare il Trattato di Rapallo. E così fece il Duce al di là delle promesse fatte a Gabriele d’Annunzio e della propaganda nazionalista.

Alla monarchia, alla borghesia liberale faceva molta più paura il pericolo comunista e la reazione fascista squadrista contro gli scioperi rassicurava molto di più di un libero pensatore nazionalista, un agitatore di masse, piuttosto anarchico come Gabriele d’Annunzio che incarnava l’ideale nazionalista della Patria superonista più di qualunque altro personaggio.
Eppure, a Fiume nacque lo stile e il metodo che userà Mussolini per fare discorsi dai balconi e ipnotizzare le masse con quella particolare mimica. Da Gabriele d’Annunzio, Mussolini riprese finanche il grido di guerra “Eia Eia Alalà” e il saluto romano, oltre alla mistica nazionalistica italiana che per legittimarsi faceva affondare le sue radici nella Romanitas. Tra l’altro, i legionari dannunziani e i fascisti di Mussolini, erano reclutati negli stessi ambienti e c’erano alcuni presenti sia a Piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919 per la costituzione dei Fasci italiani di combattimento nella sala riunioni del Circolo dell’alleanza industriale, sia nell’impresa fiumana, come testimoniato anche da Ruggero Morghen nel romanzo storico biografico “Da Piazza San Sepolcro a Fiume Città di Vita” (Edizioni Solfanelli).
Negli ambienti nazionalisti, combattentisti e irredentisti Gabriele d’Annunzio aveva grande presa e avrebbe con cinismo politico potuto scalzare Mussolini almeno fino al delitto Matteotti e metterlo in difficoltà almeno prima della proclamazione dell’Impero il 9 maggio 1936 in una Piazza Venezia gremita all’inverosimile. Ma ciò non avvenne mai, un po’ perché di fatto d’Annunzio era un intellettuale prestato alla politica, un idealista della Patria che aveva alti e nobili ideali che mal si coniugavano con la “realpolitik” che doveva portare avanti Mussolini per conservare e incrementare il suo potere. E poi a Gabriele d’Annunzio, tutto sommato, piaceva vivere in quella gabbia dorata che era il Vittoriale, come una piccola corte principesca che il regime fascista gli aveva edificato e che se da una parte lo estraniava sempre più dalla vita politica reale, dall’altro lato ha contribuito a creare in modo determinante la figura, il personaggio mitico di virgiliana memoria di Gabriele d’Annunzio, “Vate degli Italiani” che può farci considerare il Vate, punto di riferimento culturale ed ideale per il nazionalismo italiano, che va ben oltre il Fascismo, pressocché imprescindibile per chi vuole portare avanti un nazionalismo italiano scevro dalle contaminazioni delle fratture nate dalla guerra civile 1943-1945.
Addirittura, si dice che prima della Marcia su Roma ci sono stati dei gerarchi fascisti che volevano sostituire Benito Mussolini con Gabriele D’Annunzio alla guida del PNF, non condividendo l’accordo fatto dal capo del Fascismo con gruppi di socialisti rivoluzionari e di tentennare nella presa del governo e delle sorti della Patria.
A campeggiare la fronda fascista pro dannunziana Dino Grandi (1895-1988), il triumviro Italo Balbo (1896-1940) e altri ras locali. Viene avanzata la proposta di un “blocco fascista Veneto-Emiliano-Romagnolo-Tosco- Umbro con quotidiano proprio”.
Grandi e Balbo, per questo loro progetto scelsero come guida proprio il Vate, così ai primi di autunno del 1921 si recarono segretamente alla villa di Riviera Gardone, cercando inutilmente di convincere d’Annunzio a prendere la guida dei fasci, approfittando del raduno nazionale di ex combattenti del 4 Novembre, anniversario della Vittoria, per dare l’avvio ad una Marcia su Roma coordinata da Gabriele d’Annunzio anziché da Benito Mussolini.
Il Vate, che li aveva ricevuti vestito da sacerdote romano a capo coperto rispose alla loro proposta: “Fratelli, prima di prendere una decisione così grave, debbo consultare le stelle”, e li rimandò all’indomani. Il giorno dopo disse loro che “le stelle, coperte dalle nuvole, non si sono rivelate” e così andò avanti per quasi una settimana, finché Grandi e Balbo rinunciarono. Furono momenti importanti per la sorte della Patria.
Il 13 agosto 1922 (intorno alle 23.00), Gabriele d’Annunzio cadde misteriosamente dalla finestra di casa restando miracolosamente illeso, nella giornata che viene ricordata dal poeta stesso come quella del volo dell’Arcangelo. Nitti che doveva incontrarlo col figlio Vincenzo seppe della caduta del Vate e annullo tutto. Così Benito Mussolini ebbe campo libero per l’instaurazione di un governo fascista ad ottobre 1922.
Gabriele d’Annunzio, ritiratosi dalla vita politica, dopo la sconfitta subita, ricordò più volte ai suoi legionari di mantenere la propria indipendenza dalle squadre fasciste senza invischiarsi direttamente nell’arena politica, poiché l’opposizione di D’Annunzio a Mussolini non fu mai esplicita, come dimostra il comportamento del Vate in occasione del delitto Matteotti, quando veramente la poltrona del governo ha scricchiolato sotto la schiena del Duce e d’Annunzio ufficialmente non ha commentato nulla di quanto accaduto, limitandosi a rispondere alle lettere di seguaci e fans che gli chiedevano di intervenire, di tenersi distanti da tale rovina.
Dopo la proclamazione dell’Impero italiano, ormai la posizione politica di Mussolini sembrava inattaccabile e la prigione dorata di d’Annunzio lo aveva reso sempre più amorfo e lontano dalla realtà. Ormai, forse la figura di d’Annunzio non era più utile al regime che voleva portare avanti un accentramento pseudo totalitario del potere e l’eliminazione di ogni opposizione. Quando d’Annunzio morì, gli furono tributati funerali divini ma probabilmente Mussolini si era tolto dalla coscienza una spada di damocle, una figura ingombrante, critica che non aveva più ragione di esistere nell’agorà della politica dell’Italia imperiale. Mussolini si sentiva come Giulio Cesare e aveva perso probabilmente ogni misura della realtà dei fatti in cui viveva, soprattutto in ambito di politica estera e si strinse in una fatale alleanza con Hitler che rese nuda la Patria, a causa della sconfitta militare nella Seconda Guerra Mondiale, e la straziò con mille ferite e fratture conseguenza della guerra civile fratricida. Se Mussolini avesse ascoltato d’Annunzio l’Italia non sarebbe entrata in guerra a fianco dei Tedeschi e se il Vate non fosse morto nel 1937 forse avrebbe capeggiato lui un governo dopo la caduta del Duce il 25 luglio 1943 e chissà se avremmo evitato la disfatta della Patria dopo l’8 settembre. Ma possiamo fare solo supposizioni su come sarebbero andate le cose per la nostra Patria, come sulla morte di d’Annunzio non abbiamo certezze, si tratta tutto di fantastoria e fantapolitica patria. Ciò che é però certo che dopo la scomparsa del Vate inizia la lenta e inconsapevole crisi della Patria risorta col Risorgimento.

Cristiano Vignali