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A Vaclav Vich l’Esposimetro d’Oro alla Memoria

E’ stato assegnato a Vaclav Vich l’Esposimetro d’Oro alla Memoria della 22^ edizione del Premio Internazionale della Fotografia Cinematografica “Gianni Di Venanzo”. La giuria, presieduta dal critico e saggista cinematografico Stefano Masi, ha inteso premiare l’autore della fotografia boemo per la sua carriera e per gli autentici capolavori firmati soprattutto a cavallo degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso e anche per la carica innovativa espressa in quegli anni in cui fornì un contributo fondamentale per lo svecchiamento dell’immagine del cinema italiano, come scrive lo stesso Masi nel suo Dizionario mondiale dei direttori della fotografia, vol. 2, 2009 Le Mani.

Il riconoscimento sarà consegnato sabato 14 ottobre prossimo, nel corso della cerimonia di premiazione in programma al cineteatro Comunale di Teramo: a ritirare l’Esposimetro d’Oro ci sarà l’attore Ivan Franek, connazionale di Vich, protagonista del corto Timballo del regista abruzzese Maurizio Forcella e apprezzato in numerosi film tra cui ricordiamo La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Brucio nel vento di Silvio Soldini.

 

Biografia (da: Stefano Masi, Dizionario mondiale dei direttori della fotografia, vol. 2, 2009 Le Mani)

Vaclav Vich, boemo naturalizzato italiano, è nato a Karlovy Vary (Repubblica Ceca) il 18 gennaio 1898 quando la città si chiamava Karlsbad in Boemia, facente parte dell’Impero austro-ungarico; è morto a Siusi (Bolzano) il 24 agosto 1966. Iniziò a lavorare come fotoreporter quando venne chiamato alle armi durante la prima guerra mondiale. Dopo la fine del conflitto rientrò a Praga e cominciò a entrare nel mondo del cinema come assistente operatore di Otto Heller. Dal 1923 passò alla direzione della fotografia per due film cecoslovacchi e nel 1929 si guadagnò attenzione a livello internazionale con il melodramma Erotikon.

Da quel momento la sua carriera praticamente non conobbe soste; lavorò intensamente in diverse nazioni, in Germania, Austria, Francia e Svezia. Poi, seguendo il regista Gustav Machaty, nel 1936 approdò a Roma, nella Cinecittà fascista dove fu accolto con tutti gli onori: si vide affidare le più importanti produzioni dell’epoca, spesso al fianco di Alessandro Blasetti, da Ettore Fieramosca (1938) al lussureggiante La corona di ferro (1941), che si può considerare il capolavoro di questo asso della fotografia mitteleuropea.

Sopravvissuto al crollo del regime di Mussolini, nel dopoguerra rimase in Italia e, in coppia con Domenico Scala, si aggiudicò il Nastro d’Argento per il bianco e nero del film Daniele Cortis (1947) di Mario Soldati. Ma non legò con i cineasti della generazione del Neorealismo. Negli ultimi anni della sua vita insegnò tecniche di ripresa a Roma.

Del suo periodo iniziale in patria si ricorda il successo di Erotikon (1929), dramma diretto da Gustav Machaty, divenuto celebre per la capacità di trasmettere la sensualità del racconto anche attraverso il bianco e nero. Dopo l’avvento al potere di Hitler nella vicina Germania, Vich cominciò a lavorare sempre più spesso all’estero. In Italia arrivo con Machaty: nei neonati stabilimenti di Tirrenia illuminò alla sua maniera il film Ballerine (1936) che non ebbe grande successo, ma aprì le porte della nascente Cinecittà fascista all’asso della luce boemo.

Produttori e registi italiani rimasero colpiti dalla precisione della luce di Vich che, come altri colleghi francesi dell’epoca, costruiva una struttura di bandiere per governare la luce dei proiettori, praticando fori dentro cartoni per far passare il raggio di luce giusto. Il talento dell’operatore boemo rifulgeva dalle pagine del patriottico mélo Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini, fotografato con una gentilezza di tocco ignota agli altri operatori italiani dell’epoca e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia.

Imitato, ammirato, molto ben retribuito, perfino invidiato dai colleghi, l’operatore boemo spese l’autorevolezza di cui godeva per indurre i produttori a dotarsi di mezzi illuminanti più moderni. Egli svolse un ruolo non marginale nella formulazione del modello dei cosiddetti telefoni bianchi, che si rifaceva in maniera non pedissequa a stilemi fotografici hollywoodiani, soprattutto nelle commedie di Max Neufeld costruite sul leggiadro splendore giovanile di Alida Valli, da Ballo al castello (1939) al famoso Assenza ingiustificata (1939).

Alessandro Blasetti ne fece il suo operatore quasi personale in pellicole che alla fotografia  richiedevano soprattutto  la capacità di costruire  l’atmosfera giusta. Vich ricambiò la fiducia di Blasetti con un magistrale lavoro sul chiaroscuro di Ettore Fieramosca e Retroscena (1939), Un’avventura di Salvator Rosa (1940) e La corona di ferro. E’ soprattutto per La corona di ferro che l’operatore boemo deve essere annoverato tra i grandi della fotografia europea.

Con lo sternberghiano scintillìo degli ori e dei metalli, questa epopea collocata fuori dal tempo, misteriosa ma al tempo stesso brillante, rappresenta una felice sintesi fra la scrittura cupa del film d’epoca e l’irrealtà della fiaba. Nella Cinecittà fascista Vich visse il periodo più entusiasmante della sua carriera di operatore. Non solo girò film di grande bellezza formale, ma contribuì anche in maniera importante alla definizione dell’identità professionale della categoria e fece innalzare i livelli medi delle paghe.

Tra i film ai quali impresse un segno di stile notevole bisogna ricordare La peccatrice (1940) di Amleto Palermi e Primo amore (1941) di Carmine Gallone. Vich seguì fedelmente il percorso artistico di Blasetti quando il grande cineasta italiano intraprese una strada più incline al naturalismo, dapprima nella leggiadra leggerezza di Quattro passi fra le nuvole (1942) e quindi nel dramma realista Nessuno torna indietro (1945).

A dispetto del suo ruolo di stella della Cinecittà fascista, Vich non venne travolto dal crollo del regime. Anzi, dopo la Liberazione rimase sulla cresta dell’onda. Mario Soldati gli affidò il chiaroscuro di ambiziose pellicole d’epoca e a Vich si devono pure le riprese degli effetti speciali del capolavoro di Vittorio De Sica Miracolo a Milano (1951), come il volo finale dei barboni. Tuttavia i cineasti che stavano scrivendo la rivoluzione neorealista consideravano Vich un corpo estraneo. Col passare degli anni gli risultò sempre più difficile trovare produzioni all’altezza della sua fama. Le cercò quindi fuori dai confini della sua seconda patria, in Austria e soprattutto in Germania. Ma Vich, dopo le esperienze all’estero, non volle lasciare l’Italia e accettò anche produzioni di più basso profilo nobilitandole con il suo gusto. Molto raffinata ed efficace, per esempio, fu la sua luce per la giovane Claudia Mori nella commedia Cerasella (1959) diretta da Raffaello Matarazzo.

Il Premio Di Venanzo, organizzato come sempre, dall’associazione culturale Teramo Nostra, ha già proposto alcune iniziative di questa 22^ edizione, ma il clou ci sarà nelle prime due settimane di ottobre con la consueta serie di appuntamenti a ingresso gratuito: mostre, proiezioni di film, convegni, presentazione di libri, concorsi fotografici, rassegna di cortometraggi, concerti, recital e l’8^ edizione del Premio Caporale, gestito in sinergia con l’Istituto Zooprofilattico, che propone un concorso di video che indaga il rapporto tra uomo e animale.

I protagonisti della manifestazione sono ovviamente gli Autori della Fotografia cinematografica, celebrati ogni anno a Teramo nel ricordo del grandissimo Gianni Di Venanzo, il maestro della luce teramano, vera e propria icona della fotografia cinematografica, scomparso prematuramente nel 1966 a soli 46 anni, ma reso immortale dai film girati e illuminati per Fellini, Rosi, Antonioni e tanti altri miti del cinema.

Anche quest’anno saranno consegnati 4 Esposimetri d’Oro ad altrettanti Autori per le seguenti categorie:

  • Memoria – Carriera          – Film italiano         – Film straniero