giovedì, Maggio 16, 2024
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Borghi di legno, ricordi, ancora casette. Icone sibilline

di Renato Mattioni

Raspare dentro i cassetti della casa sbracata. Foto in bianco e nero e giornalini di caserma. Militare dunque. E ci vuole chi non l’ha fatto – il militare – per riproporlo. E te lo dico io maschilista di chi non è bono per il re non è bono per la regina, e che è stata una bella esperienza. Trent’anni fa, e giù di lì. Con una foto enorme, con faccia piccola e cappello immenso, duro nello sguardo da bambino mai cresciuto. Eppure è un anno – almeno – perso, tanto più con i figli, gente del mondo è proprio antistorico (oltre ad essere antieconomico).. E poi bomboniere annegate di tulle e confetti come sassi, e poi il corredo della zia e il tavolo di noce dei nonni. Svuotare le case di friabili blocchi di cemento grigiastro – in indefinita attesa di demolizione – è un viaggio nel tempo. Certo storie familiari, ma anche spesso sociali con quell’incrocio di famiglie che vivono micro accrocchi comunitari.

Borghi di legno

Le pietre restano mi raccontava una coppia romana nel suo investire immaginifico per riscostruire case su case, come un’eredità imperitura. Ed invece la gente della diaspora è rimasta, e le case di pietra sono sostituite da casette di legno, una accanto all’altra come un condominio orizzontale, un residence marino senza mare e senza giochi. Un borgo di legno livellato, magari personalizzato da una piantina odorosa o uno sdraio a righe. Un agglomerato di legno, come ancora un villaggio di cinecittà, sospeso nel tempo e nello spazio, a ridosso di centri storici sbiellati, dove ogni tanto si fa una passeggiata della memoria triste. L’avevamo detto, per quel che vale. Ricostruire bello e diverso, trovando un architetto di nome, un urbanista illuminato, una piccola impresa visionaria per fate tutto oltre. E alla fine prevale lo spirito della colletta pietosa per rimettere le strutture li dov’erano. Finita – sperem – l’emergenza, la ricostruzione degli spazi e dei luoghi è cosa se possibile ancor più ardua. Così com’era, accanto a dov’era o nuove comunità, nuove istituzioni, fusioni di comunità come occasione per fondere istituzioni? Un nuovo spazio per l’impresa, l’artigianato, il commercio, decentrando strutture senza duplicazioni. C’è un ruolo della Regione per ripensare insieme ai comuni una ristrutturazione bella e buona? Penso di si.

Riunire in modo stabile

Penso anche al fatto che ci sarà una candidatura tra tre regioni alle olimpiadi invernali, che c’è una rete di città unite da un’ora d’alta velocità. E non si riesce davvero a fare un solo comune che unisca tre o quattro municipi attuali, decentrando servizi?

C’è sempre questa sensazione di una politica divisa. Quella nazionale che ha dato voce ad un Paese affaticato, ancora non uscito dalla crisi, e per questo precario e vulnerabile, che diventa rancoroso (come dice il Censis). Ed una politica a chilometro zero (o utile), delle amministrazioni locali, che è travolta dalla quotidianità, impallinata dalle mille norme, che non riesci a tirare su la testa. Insomma tra nuovismo e quotidianità c’è sempre fatica a trovare una strategia, a guardare lontano. E questo se volete non solo in politica. Anche tante aziende nazionali sono capaci di adattarsi più che di affrontare il nuovo (e il mondo). Ed assistiamo al solito dramma nazionale, senza trovare responsabilità, come donchisciotti addosso a mulini a vento che sembrano giganti.

Metà ricordi, metà discariche

Ritorno a svuotare la casa, che è un po’ come sversare l’anima. Ti dai pure un tempo definito per spicciare una stanza, una cantina, una soffitta. Ma poi ti blocchi. Sfili da armadi robusti maglioni magri (ricordo ormai lontano…), sci dritti e giochi da tavola e gettoni telefonici e madonnine di gesso. E poi ti blocchi che riaffiorano altre sensazioni. Ancora senza quella nostalgia t’intristice, semmai guardi una cosa e ti chiedi, cosa ne faccio ora? Come la riutilizzo?

Le case sono metà ricordi e metà discariche. Non riesci mai a buttar via niente. Metti da parte come uno scoiattolo nella tana querciosa, che tutto può tornare buono. Tanto ‘ste case immense sono piene di stanze, di commò, di librerie ereditate come infilate come collane di corallo della bisnonna. Che poi il lavoro è quello di Occam e i suo rasoio. Togliere il di più. Come quelle lenzuola di quasi cent’anni spesse e ruvide, serrate insieme da teli di canapa e lino. Ormai ingiallite, dal vento vecchio che scova dentro i cassettoni e insinua macchie giallognole, tanto che davanti alla discarica dici, butto via un pezzo d’anima?

Icone sibilline

Come per la tribù dei Galli irriducibili, la mia pozione magica è il ciauscolo. E ti dico di più, mi piace tutto. Magro, grasso, lardelloso, unto, sottile e largo, di fegato e anche appena rancido. Ho però gioia nell’ accompagnarlo con cacio fresco sopravvissano – possibilmente di Macereto -, ed annegare l’anima nella spumata di vernacciella di Serrapetrona. Per chiudere in gloria un Varnelli con due ghiacci galleggianti, che lo fanno quassi latteo. Le mie icone di resistenza (dicono resilienza ora…) sibillina.

Ancora casette

Si sta quasi bene in quelle casette serrate, mi dicono. Come l’autoaiuto dei vecchi borghi, accatastati per le mura ciottolose, risparmiando riscaldamento der foco, e chiacchiere al fontana pubblica, dove con la canestra su la capa, donnone scorrazzavano vestiario riutilizzato, lavato, e schiumato con sapone di grasso porcastro e soda, e sbattiti, e acqua ghiaccia e comunità in ogni momento della vita. Le casette di legno ripropongono questa comunità di prossimità, dimenticata nell’allargarsi di paesi svuotati al centro, e con villette e giardino, e orti, e autonomie di uno sbrego di autonomia come quattro soldi in più. E così l’ultima dialettica trista, e io avevo la casa e tu stavi in affitto, ed ora siamo uno accanto all’altro. Cari miei, è l’Italia del lavoro, che scompare solo quando non si riconosce il merito, e la fatica del lavoro.

Intanto

Intanto guardo le montagne e i colli alti. La natura – abbandonata – che ripiglia vigore, che è verde e verde, che è frasca e frasca, che è ciottoli e ciottoli, che è fiumicelli e fiumicelli. L’andatura impennante dei colli, le sommità rase e poi le vette scabre. Bello dico, trattenendo il fiato. Bello ancora di tarda sera quando ormai le ombre scoprono stelle chiare. Poi scrollo la testa. Non è tempo di rimirar.

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