Nel 200° anniversario della sua morte, una riflessione sul racconto “Il sogno di un uomo ridicolo“
L’età dell’oro fa parte del passato. Se c’è stato un periodo aureo, quanto tempo è trascorso dalla sua fine e perché è stato perso? E dov’era sistemato questa specie di Eden? E poi domanda ossessionante, a tratti angosciante: tornerà più questo fortunato periodo? Dostoevskij ci pensa spesso e si chiede se e come sopraggiungerà la riconquista del paradiso perduto. In fondo il Vangelo che conosce e legge attentamente, non tratta ampiamente del “ritorno” del Signore Gesù come Giudice Universale? Qualcosa che possa modificare lo status quo di questo cupo, degenerato e depravato mondo, osservato dall’interno dei bassifondi di Pietroburgo, dovrà pur accadere.
C’è uno splendido racconto che il grande scrittore russo scrive nel 1877, in pieno fervore artistico e nel momento di massima ispirazione, quello della creazione di Delitto e Castigo, L’Idiota, I demoni e i Fratelli Karamazov.
Si tratta di Il sogno di un uomo ridicolo uscito tra le pagine del Diario di uno scrittore. L’espediente letterario del sogno permette all’autore di andare oltre la descrizione realistica del presente. Si può da un lato spaziare con la fantasia, e nello stesso momento, focalizzare lo sguardo su un tema anche concreto che interessa e attrae sia l’autore che il lettore.
In breve. Un uomo che ha deciso di suicidarsi il 3 novembre, viene avvicinato da una bambina che chiede aiuto. La ignora, ormai gli è tutto indifferente. Torna nel suo misero appartamento e si addormenta. Sogna di trovarsi trasportato in una altra dimensione, un universo parallelo, dove esiste un’altra umanità. E’ un genere umano felice che non conosce malizia né peccato né violenza e odio. Tutti vivono semplicemente, senza barriere e senza religioni.
Non c’è stata la caduta nel peccato e tutti vivono in un paradiso in perfetta unione con la natura e gli animali. Esiste la morte, ma quando arriva la si accetta serenante, senza lacrime e dolore. Insomma non esiste la sofferenza. Il protagonista, l’uomo ridicolo, in un modo che lui stesso non sa spiegare, corrompe quegli innocenti e spezza la condizione paradisiaca di quella gente. Cominciano a manifestarsi la gelosia e l’invidia, la sensualità crudele, l’odio e le divisioni, i templi, i codici di leggi e infine la guerra. Il protagonista avverte gli uomini della caduta, ma loro non vogliono sentire, anzi preferiscono lo stato di menzogna che il sapere e la scienza ora fornisce. Adesso scorre il sangue dei giusti insieme ai templi costruiti e alla confusione delle lingue. L’uomo ridicolo si maledice per quello che ha causato, ma ormai anche i corrotti non vogliono tornare indietro e cominciano a guadarlo con sospetto. Anzi gli intimano di tacere, se non vuole essere rinchiuso in un manicomio…
Il protagonista si sveglia con la rivoltella sopra il tavolo. Ma adesso ha una missione diversa e scosta la pistola.
“Oh adesso vivere, vivere! Alzai le braccia e invocai l’eterna verità; non l’invocai, ma piansi l’entusiasmo uno smisurato entusiasmo solleva tutto il mio essere. Sì vita e predicazione! Circa la predicazione decisi in quello stesso momento, e ormai, naturalmente, per tutta la vita! Io vado a predicare, io voglio predicare; che cosa? La verità, giacché l’ho veduta coi miei occhi, ne ho veduta tutta la gloria!” E’ la svolta nella vita dell’uomo ridicolo.
Non ha importanza se è solo un sogno e se non è chiaro il messaggio da trasmettere. “Oh io sono ardito, sono fresco di forze e camminerò, camminerò forse pure per un migliaio di anni. Come costruire il Paradiso non so perché non sono capace di esprimerlo a parole. Ma sia andrò e parlerò sempre instancabilmente perche io ho veduto con i mie occhi anche se non so ridire quel che ho veduto”. Se gli altri lo dileggeranno non ha importanza e poi ora c’è quella bimba in difficoltà da scovare…
Dostoevskij non è un filosofo, né un teologo e nemmeno uno psicologo come sosteneva Nietzsche. Non ha un corpus di dottrine o pensieri sistemati organicamente come un pensatore. Ma la sua mente è assillata dalle domande esistenziali che confluiranno anche nella sua opera. Dostoevskij è un uomo e uno scrittore non “pacificato”. Per tutta la vita si chiederà le ragioni del male e della sofferenza. E aggiungerà – tra le righe – un’altra spinosa e delicata domanda: “Perché Dio ha dato all’uomo la libertà di fare del male al suo simile?”
Inoltre, quando arriverà “l’armonia universale”, citata con sarcasmo da Ivan Karamazov nel dialogo con il fratello Alioscia all’interno della Leggenda del Grande Inquisitore? Lo scrittore non sa rispondere, ma ad ogni modo spera in qualcosa. Quando e come si realizzerà il cambiamento è un rebus che non riuscirà mai a chiarire in tutta la sua vita, se si eccettuano alcuni programmi politici slavofili sulla “Madre Russia”, che sosterrà anche con un certo vigore.
Ma non è questo il punto. L’età dell’oro rimpianta si intravede anche nel sogno di Versilov nell’Adoloscente: qui è Cristo a tornare alla fine dei tempi e ad annunciare il suo misterioso giudizio e resurrezione. Un paradiso perduto che l’autore spera ricompaia in qualche modo. Qui siamo già nel trascendentale. Certo che se tutti gli uomini accettassero Cristo, forse saremmo già sulla buona strada sembra dire. In ogni caso i dubbi sui tempi e i modi per l’eventuale realizzazione, rimangono tutti.
Il merito di Dostoevskij nei suoi romanzi e racconti è di trasformare i personaggi in un percorso di coscienza e autocoscienza. Il pensiero e le idee diventano protagonisti assoluti. E spesso lo “spirito” dostoevskiano ha un impatto passionale, emotivo e spirituale che il lettore più attento sicuramente non potrà trascurare.
Roberto Guidotti
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