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Pamela Mastropietro, “Non spegniamo i riflettori”. I legali di Oseghale depositano l’appello: “Deve essere assolto”

pamela

di Elisa Cinquepalmi

MACERATA – Forse in molti preferiranno dimenticare Pamela Mastropietro. Ma c’è una cittadina, Cristina Moretti, che, per mezzo di una lettera, destinata e dedicata alla famiglia della giovane, ha ritenuto di dire la sua in merito all’intera vicenda, dichiarando il proprio sostegno ai familiari, che non intendono nella maniera più assoluta spegnere i riflettori su questa drammatica vicenda.

Alla fine del mese saranno trascorsi due anni. Il 30 gennaio 2018, la diciottenne romana Pamela Mastropietro venne uccisa, depezzata, disarticolata chirurgicamente, pulita con la candeggina, dissanguata e rinchiusa all’interno di due trolley. In relazione al brutale e feroce delitto, è stato condannato in primo grado all’ergastolo il nigeriano Innocent Oseghale, unico chiamato a rispondere della morte della 18enne romana. I legali della difesa hanno depositato l’appello, presso il Tribunale di Ascoli Piceno, relativamente alla condanna all’ergastolo del loro assistitodecisa dalla Corte d’assise del Tribunale di Macerata lo scorso 29 maggio. Gli avvocati chiedono infatti che vengano effettuati ulteriori accertamenti tecnici in quanto non sussisterebbero “prove sufficienti a dimostrare che Oseghale sia colpevole di aver ucciso Pamela Mastropietro”.


L’uomo, accusato di aver ucciso la giovane, è stato condannato dalla Corte d’Assise di Macerata con il massimo della pena: ergastolo, 18 mesi di isolamento diurno e la perdita della potestà genitoriale.

“Il nostro assistito deve essere assolto. Occorrono ulteriori accertamenti”. 
Così si sono espressi a riguardo i difensori Umberto Gramenzi e Simone Matraxia.

Erano le 13 del 29 gennaio 2018, quando la 18enne, per motivi allo stato non ancora chiariti, si è allontanata dalla comunità Pars di Corridonia.

Pamela ha raggiunto con un taxi i Giardini Díaz e, proprio lì, si è imbattuta in Oseghale.

Per Matraxia e Gramenzi, gli esami che comproverebbero la colpevolezza del nigeriano sarebbero stati svolti “con superficialità”, a causa della pressione mediatica.

I difensori sostengono inoltre che sia attendibile il fatto che Pamela Mastropietro sia morta di overdose e per questo richiedono anche la documentazione dei precedenti ricoveri della giovane, prima del suo ingresso alla Pars di Corridonia.

La Corte d’Assise ha escluso nettamente l’ipotesi dell’overdose.
I giudici si sono infatti soffermati sulle due ferite inferte al fegato.

Per i legali della difesa, però, quei due colpi non sarebbero stati letali, anche perché se il loro assistito avesse avuto intenzione di uccidere Pamela, avrebbe dovuto colpire altri organi più vitali del fegato e con una profondità superiore ad 1 centimetro.

I legali della difesa: “Pamela era in grado di difendersi?”

Un’altra domanda che gli avvocati di Oseghale si pongono è: “Pamela era in grado di proteggersi durante la colluttazione?”

Stando ai giudici, la diciottenne sarebbe voluta uscire dall’appartamento per andare a denunciare la violenza sessuale subita dal nigeriano e dunque, per Matraxia e Gramenzi, Pamela in quel momento sarebbe stata in grado di divincolarsi per fuggire dalle grinfie del loro assistito.

I difensori tornano con insistenza sulla decisione della Corte d’Assise.

“È una condanna nata in base alla testimonianza poco attendibile dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Marino, detenuto nella casa Circondariale di Ascoli. Una persona già nota in altri processi per le sue dichiarazioni irrealistiche.”

Nel tempo antecedente la fase dibattimentale, Oseghale e Marino hanno condiviso lo stesso carcere e, stando alle parole dell’ex collaboratore di giustizia, l’imputato gli avrebbe confidato ogni singolo dettaglio della drammatica vicenda, compresi i nei che Pamela Mastropietro aveva sul corpo. Matraxia e Gramenzi ricordano anche le telefonate tra Oseghale ed il connazionale Antony Anyanwu.

Stando alle intercettazioni telefoniche, il nigeriano lo avrebbe contattato per chiedergli aiuto, in quanto Pamela si sarebbe sentita male dopo aver assunto la dose di eroina acquistata poche ore prima da Desmond Lucky.

Infine, i legali sottolineano la presenza di un elevato inquinamento dei ricordi dovuto ai media, che avrebbe influito sulle decisioni della Corte d’Assise. Per questo, l’appello è incentrato sull’insussistenza del reato di omicidio aggravato dalla violenza sessuale. Uno stupro che secondo gli avvocati non è mai avvenuto.

“Non abbiamo ancora preso visione – dichiara a questo proposito l’avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia Mastropietro – dell’appello in sè. Ma sele motivazioni sono queste, ce le aspettavano. E’ chiaro che i legali della difesa punteranno in appello a dimostrare che Pamela è morta di overdose, e non per le due coltellate inferte. Siamo relativamente tranquilli, basandoci sulla struttura granitica della sentenza di primo grado, precisa e dettagliata nel riportare la sequenza degli eventi. Tra l’altro, la Corte ha preso le distanze da Vincenzo Marino. Non mi capacito quindi del perchè si debba tornare su questo aspetto. La decisione, per quanto ci riguarda, si basa su prove scientifiche. In ogni caso ci riserviamo di fornire i nostri commenti una volta valutata la documentazione”.

A sostegno della famiglia arriva la lettera, in allegato, della maceratese Cristina Moretti, che pone questiti e dubbi su quelli che in molti ritengono “i punti oscuri della vicenda”, sottolineando anche come troppo spesso la famiglia di Pamela sia stata attaccata con parole taglienti.

NON SPEGNIAMO I RIFLETTORI

L’intervista ad Alessandra Verni, madre di Pamela Mastropietro, apparsa il 18 dicembre u.s. nella rivista Panorama, ha risvegliato in me alcune riflessioni e dubbi. Ho seguito questa tragica vicenda sin dal primo momento e tanti, come per la famiglia, sono per me i punti oscuri, rimasti senza una risposta. Ad oggi, nonostante sia stato più volte ribadito che questa giovane donna, in condizioni di minorata difesa, sia stata drogata, violentata, uccisa con due coltellate, depezzata chirurgicamente, scuoiata, disarticolata, scarnificata, esanguata, lavata con la varechina, messa in due trolley ed abbandonata sul ciglio di una strada, c’è chi ha ancora il coraggio di affermare stupidamente che era una tossica e che se l’è andata a cercare.

Pensiamo invece per un attimo a cosa possa aver provato Pamela quando si è resa conto delle intenzioni del suo carnefice (anche se mi viene più naturale parlare al plurale, e quindi dei suoi carnefici, perché non è umanamente concepibile che un solo individuo seppur esperto, come sembrerebbe, ma anche lì senza approfondire, possa aver agito da solo).

Pensiamo agli attimi di terrore interminabili di questa ragazzina di appena 18 anni sola, lontana da casa, con una patologia psichiatrica grave che la rendeva fragile come un cristallo. Di questo però non ne parla nessuno. Si preferisce dire altro, si preferisce quasi accusarla del suo tragico destino. E nessuno parla neanche della sofferenza della famiglia, della mamma, dei suoi occhi pieni di dolore, dolore per una figlia con una malattia grave prima e per il martirio subìto poi, dolore che non finirà mai.

Si preferisce criticarla se ha i capelli in ordine o se sorride (anche se molto raramente), si preferisce accusare senza cognizione di causa, senza conoscere. Situazioni di degrado e spaccio in alcune zone della città erano da anni che si sentivano (giardini Diaz, Forte Macallè, Fontescodella…), qualcosa di più grande del previsto deve essere sfuggito e siamo così sicuri che non stia sfuggendo altro?

Come sostenuto da Nando Dalla Chiesa in un incontro all’Università di Camerino “la gente non vuol sentirsi dire che il crimine è più vicino di quanto pensino”. Sempre secondo questa rappresentazione ad esempio “il mafioso non vive tra noi, è un essere onnipotente che vive lontano da noi e ciò ci tranquillizza”. Ed ecco che a Macerata è diventato un tabù parlare di mafia nigeriana, seppur recentemente da un’indagine della DDA dell’Aquila sia emerso che una base organizzativa era proprio nel maceratese. Vorrei che questo nuovo anno, appena iniziato, risvegliasse le coscienze, vorrei che la Chiesa, per voce dei suoi rappresentanti, si mostrasse vicina alla famiglia di Pamela con una parola di conforto, che troppo spesso è mancata. Vorrei che si continuasse ad indagare su questa tragica vicenda, andando sino in fondo, senza lasciare nessun vuoto, nessuna lacuna, partendo dalla comunità dove Pamela era in cura, passando per chi ha abusato di lei offrendole un passaggio sino ad arrivare a chi era presente nel condominio dove è avvenuto il massacro.

Vorrei che non si perdesse il ricordo di questa drammatica storia e che il giardino antistante al civico 124 di via Spalato venisse finalmente dedicato alla memoria di Pamela, anche se a molti creano fastidio persino i fiori e i ceri che vi sono stati lasciati. Vorrei la solidarietà di tutta la città, vorrei che Pamela non sia considerata il caso scomodo della Civitas Mariae, ma una vittima innocente che ha incrociato qui il suo tragico e fatale destino. Non spegniamo i riflettori su questa drammatica vicenda”.

Relativamente alla lettra, così si esprime il legale della famiglia Mastropietro, Marco Valerio Verni: “Ringraziamo Cristina Moretti per aver scritto questa lettera, che comprova la vicinanza a noi di una parte di Macerata. E’ vero, da una parte abbiamo trovato freddezza, ma dall’altra abbiamo trovato una Macerata che ci chiede di andare avanti, anche perchè ha capito che oltre alla vicenda in sè, ci può essere molto altro”.

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