venerdì, Marzo 29, 2024
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“Aree Interne, approccio politico miope e insufficiente”

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“Aree Interne, approccio politico miope e insufficiente”

Siamo in contesto di ferie e, di conseguenza, di chiusura di rendiconti di esercizio provvisorio che ogni attività, piccola o grande che sia, ritualmente compie.

Ebbene, per l’ennesima volta, tale adempimento avviene in corrispondenza dell’ennesimo proclamo, avente ad oggetto l’impiego di risorse pubbliche per le zone montane, il quale invece, per un piccolo operatore economico ivi esercente, offre inevitabilmente lo spunto per la contrapposta, periodica ed ormai rassegnata, riflessione sulla insufficienza e sulla miopia, a tratti intellettualmente mortificante, dell’approccio politico per la sorte delle Aree Interne.

Negli ultimi anni – vuoi anche in ragione della nota situazione pandemica che, apparentemente, da un lato avrebbe ridestato attenzione e consapevolezza sulla necessità di far fronte all’eccessiva concentrazione demografica dei principali centri urbani e, dall’altro lato, sulla doverosità di fronteggiare lo spopolamento delle aree interne mediante interventi urgenti – si è assistito ad un proliferare di convegni, seminari, manifestazioni d’intento politico, dalle quali sono scaturite le più variegate ricette per individuare la soluzione al problema dello spopolamento.

Il tutto nel nome di una rinnovata presa d’atto dell’emergenza socio – lavorativo – demografica che quest’ultime stanno vivendo.

Com’è evidente, tuttavia, alla teoria non è mai seguita adeguata pragmaticità e, altrettanto sicuramente, non si è ancora giunti alla necessaria sintesi risolutiva.

Lungi dall’assurgere al Savonarola di turno, una volta appresa la notizia dell’ulteriore impegno di spesa pari ad un milione di Euro per migliorare la viabilità della c.d. “monti – mare”, il quale anderebbe verosimilmente ad aggiungersi agli ulteriori dieci asseritamente stanziati dalla precedente compagine governativa, quale operatore della microeconomia montana non posso non rilevare come detto intervento suoni in maniera sorda, al pari dell’ennesimo gettone infilato in un salvadanaio semivuoto ed in fremente attesa di essere ritualmente rotto, in occasione di un non meglio temporalmente collocato, ma comunque promesso, Natale.

Allo stesso tempo la ricorrente necessità di una strategia nazionale unitaria per le Aree interne concepita da illuminata ed autoreferenziale dottrina, ormai viene percepita al pari della Legge Quadro per la Calamità Naturali, incompiuta e giacente da quasi cinquant’anni, tanto da apparire come il valido rimando e l’adeguato pretesto per giustificare l’effettiva mancanza di risposte concrete ad un problema invece sempre più urgente ed inevitabile.

Peraltro, riconoscere la stringente necessità di una strategia unitaria, costituisce una contraddizione in termini, se non addirittura il riconoscimento dell’inottemperanza e del fallimento, di uno dei principi cardine dell’intero assetto giuridico – istituzionale, finanche Comunitario, in forza del quale la Repubblica Italiana si fonda proprio sui Comuni e, quindi, sulle dovute diversificazione istituzionale e distribuzione territoriale.

Principio questo che interessa tutti, anche di chi non vive ed opera nelle aree interne, ma a condizione che preliminarmente si condivida l’ineluttabilità di una ridistribuzione socio – demografica, così come si accetti il dato, forse politicamente scorretto, ma comunque dato di fatto, che chi si premura di aree interne, nella maggior parte dei casi non conosce le medesime e, molto spesso, è superficialmente condizionato da una concezione “presepistica”.

Il primo livello di ragionamento foriero di pratici riflessi, non può che focalizzarsi sulla mancanza di una, fattiva e credibile, progettualità.

Solo un’effettiva pianificazione di sviluppo (o recupero) territoriale a medio – breve termine, può infatti rivelarsi idonea a tentare di contenere l’emorragia di risorse antropiche ed economiche, nonché ingenerare quell’attrazione necessaria a soddisfare le esigenze deflattive dei principali poli demografici.

In assenza di chiarezza, concretezza e serietà, sulle decisioni da assumere e sugli interventi strutturali da approntare nel prossimo decennio, addirittura la generazione degli attuali ultratrentenni (come il sottoscritto) rischierà di toccare con mano la fine dei centri urbani dell’area pedemontana.

Il dimezzamento del dato demografico degli ultimi sessant’anni, del resto, è sotto agli occhi di tutti, sicchè non appare difficile prevedere con sufficiente certezza la desertificazione antropica entro i prossimi cinquant’anni.

Tuttavia, nonostante siffatta impellenza e la consapevolezza della probabile incompatibilità con le note tempistiche politico – amministrative, appare allo stato remota anche la dovuta individuazione di quella che dovrebbe essere la vocazione delle aree interne.

Anche sul punto, infatti, vi è eccessiva incertezza.

Chi ritiene che la vocazione delle aree interne possa essere squisitamente turistica, purtroppo non conosce il territorio, la sua conformazione, le sue stagioni e le sue risorse.

Solo un approccio ponderato, consentirebbe infatti di realizzare che la risorsa turistica, per chi vi abita, può rappresentare una valida forma di integrazione del reddito e non già la principale ed unica entrata, ciò in ragione della mera stagionalità, della connotazione escursionistica della domanda e della tipologia dell’avventore.

Domanda condizionata, com’è evidente, dall’assenza di collegamenti stradali ed aeroportuali (men che meno ferroviari) di ragionevole sopportazione.

Infatti difficilmente il turismo si rivela di tipo residenziale ed in poche occasioni si protrae alcuni giorni, sicchè non può considerarsi incisivo (e men che meno decisivo) per le sorti economiche di un territorio. Anzi, per contro, tale tipologia di afflusso (come del resto di recente emerso) in alcuni periodi pone addirittura a rischio la medesima offerta naturalistica, esposta ad un eccessivo ed incontrollato consumo.

Oltretutto sempre più di sovente, mi contenta la digressione, occorre anche spendere soldi pubblici per soccorrere qualche sprovveduto rimasto abbarbicato in zone montane non consigliate, se non addirittura vietate.

E’ chiaro, quindi, che la risorsa turistica non può, essa sola, risolvere il problema dello spopolamento e costituire motivo di attrazione di investimenti privati, fintanto che, prima, non vi saranno investimenti pubblici per garantirne adeguata fruibilità.

Il tempo, come detto, è tiranno, non basta pertanto la promessa di un milione così come non ne bastano dieci, se agli stessi non si associa una responsabile progettualità a breve-medio termine.

Oltretutto l’evoluzione dell’offerta turistica mal si concilia con le tempistiche di salvaguardia di un’intera area soggetta ad uno spopolamento implementato dai noti eventi sismici.

Quali sono, pertanto, le principali risorse su cui puntare nel breve temine?

Come detto chiarezza identitaria, progettualità, pianificazione, e tempestività sotto l’aspetto politico – amministrativo, sì da poter valorizzare la vera e principale attrattiva, vale a dire la riscoperta qualità della vita.

Purtroppo però, detta innegabile risorsa, ad oggi invece continua a rappresentare un’opportunità che in termini di costi – benefici cede il passo a scelte di segno opposto.

Mi spiego meglio: un giovane nucleo preferirà costantemente stabilirsi in un capoluogo piuttosto che in un luogo periferico fintanto che dovrà affrontare costi importanti per il bilancio familiare anche solo per recarsi al lavoro (non essendovene nella zona pedemontana), nonché per garantire adeguata scelta in termini di istruzione e tempo libero ai propri figli.

La situazione attuale, del resto, è oggettivamente disincentivante e gravemente antieconomica.

Muovendo dal dato incontrovertibile in forza del quale al calo demografico consegue anche una diminuzione dell’offerta lavorativa, un lavoratore autonomo o dipendente (pubblico o privato che sia) pur di accettare di mantenere il proprio luogo di residenza ed il proprio nucleo familiare in zona pedemontana, è costretto a sostenere costi di trasporto per circa 2.500,00 Euro annui superiori a quelli di un abitante in una città capoluogo, e questo solo per recarsi a lavoro, essendo inoltre sottoposto alla medesima imposizione fiscale del residente “cittadino”.

Il tutto con privazione e sacrificio del tempo necessario per gli spostamenti da e per il luogo di lavoro (almeno due ore giornaliere) e conseguente peggioramento proprio di quella qualità della vita convintamente preservata.

Per non parlare poi del costante aumento dei suddetti costi di spostamento, della scarsità del trasporto pubblico e dei maggiori costi delle ulteriori necessità familiari quali, a mero titolo esemplificativo, il riscaldamento, essendo le stagioni più rigide nelle aree interne.

Orbene, questa valutazione, deve essere poi effettuata ma in maniera esponenziale, per l’attività d’impresa che, esercitata in un’area interna, rischia addirittura di diventare fortemente antieconomica.

È chiaro, quindi, come si sia di fronte ad un impoverimento del tessuto economico, sul quale peraltro il C.A.S. ha avuto gli stessi effetti disincentivanti, sotto l’aspetto dell’iniziativa, del reddito di cittadinanza.

In buona sostanza vivere in un’area interna è diventato un lusso pagato a caro prezzo e fare impresa è attività ancor più ardua, attese l’impalpabilità e l’incertezza, nonché l’assenza di connotazione, degli isolati interventi che la Pubblica Amministrazione ha fin qui riservato alle aree interne, il tutto in un contesto di assenza progettuale e latitanza della necessaria pianificazione territoriale.

In secondo luogo, le Aree interne non eleggono rappresentati politici da diversi decenni, sicchè parlare di deficit democratico non appare peregrino e, anzi, appare giunto il momento di affrontare il problema, approntando le opportune misure e non apparendo più sostenibile e comunque inadeguato, il doversi “raccomandare” come territorio al politico di turno, onde veder anche solo prese in considerazione le rispettive, legittime, sempre articolate, istanze.

L’Area montana delle Marche Sud, com’è evidente, se da un alto risente della forza attrattrice, in termini demografici, dei rispettivi capoluoghi, dall’altro lato risente di una coartata frammentazione sovracomunale, derivante dalla divisione delle Province di Ascoli Piceno e Fermo la quale, ancorchè le stesse siano ormai svuotate delle originarie attribuzioni amministrative, si riflette in modo nefasto non solo sulla rappresentatività delle zone interne, impedendone la necessaria unità in punto di rappresentanza, ma anche e soprattutto sull’agilità degli operatori dell’economia montana che, a cavallo delle due aree, sono costretti ad interfacciarsi con una pluralità di presidi amministrativi, giudiziari e produttivi, con conseguente diversità di discipline, regolamenti, soggetti ed inevitabile appesantimento delle rispettive attività.

Se quindi a distanza di quasi vent’anni dalla divisione delle Province di Ascoli Piceno e Fermo è possibile tirare le prime somme in termini di convenienza, il dato incontrovertibile è che le Aree Interne ne sono risultate e risultano tutt’ora pregiudicate, a beneficio dei poli provinciali e delle relative zone limitrofe, i quali hanno invece visto incrementare la rispettiva incidenza, importanza e concentrazione, non solamente demografica, ma soprattutto economica.

Con ciò neutralizzando il vero ed originale significato del termine Provincia, la cui accezione anche solo lessicale, è oramai prerogativa di un ristretto cerchio di Comuni.

Si obietterà: ma il fenomeno dello spopolamento delle aree interne è oramai in corso da oltre cinquant’anni, e quindi come può essere attribuito ad un’errata divisione territoriale?

Orbene, la risposta non può che essere che il problema è, ovviamente, composito ed articolato, ma di certo non sono interventi una tantum a rappresentare la soluzione, non lo sono le mere dichiarazioni di intento politico e non lo sono le estemporanee manifestazioni di interesse. Di certo vi deve essere un punto di partenza, vale a dire garantire adeguata rappresentanza, così come occorre essere intellettualmente onesti con sé stessi: le cose non sono andate come si sperava e, probabilmente, le poche decisioni assunte a livello sovracomunale si sono rivelate controproducenti, volendo comunque confidare nella buona fede di chi se ne è fatto promotore.

Avv. Emiliano Carnevali

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